n. 13 – febbraio 2018

20. Febbraio 2018 IN HOC SIGNO 0

Cari amici,
la battaglia di Alleanza Cattolica per la costruzione di una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio si svolge a tutti i livelli. Oggi vi proponiamo un contributo insolito, di genere letterario: un articolo del nostro reggente regionale prof. Leonardo Gallotta, già comparso nel sito www.alleanzacattolica.org il 27 gennaio scorso, che mette a tema un canto della Divina Commedia nel quale il sommo poeta affresca la concezione estetica di san Tommaso d’Aquino in versi vividi come quadri.

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Dante e l’espressione bella del vero

prof. Leonardo Gallotta

Divina Commedia, canto X del Purgatorio. Virgilio (Publio Virgilio Marone, 70 a.C.-19 d.C.) e Dante Alighieri (1265-1321), dopo aver percorso uno stretto e spigoloso sentiero, giungono nella prima cornice del monte, quella dei superbi. Le cornici sono sette anelli circolari in ciascuno dei quali le anime si purificano da uno dei sette vizi capitali che hanno praticato in vita. Si parte dalla superbia e si finisce con la lussuria. Ai piedi della roccia della prima cornice, Dante vede degl’“intagli” di candido marmo disposti non a perpendicolo, ma inclinati. Ciò è dovuto al fatto che la pena del contrappasso per i superbi è costituita da massi posti sulla loro schiena che li costringono a vedere gli esempi, ivi raffigurati, di umiltà esaltata.
Molti hanno definito bassorilievi quegl’“intagli”, ma oggi la maggior parte degli studiosi pensa invece ad altorilievi, cioè formelle con sculture aggettanti, poiché è stato fatto notare che il grande modello di Dante non poteva che essere costituito dalle opere plastiche della scultura a lui contemporanea. Basterebbe prendere in considerazione i tre pulpiti di Nicola e Giovanni Pisano (rispettivamente 1220-1284 e 1250-1315) a Pistoia, a Pisa e a Siena per i quali si può parlare a pieno titolo di altorilievi.
Gl’“intagli” sono così ben fatti che non soltanto il grande scultore greco Policleto (secolo V a.C.), ma persino «[…] la natura lì avrebbe scorno» (v. 33). Il perché è presto detto. Siamo in un mondo sovra-umano e gl’“intagli” sono opera di Dio.
Ora, secondo la filosofia scolastica medioevale la natura imita le idee di Dio e l’artista imita la natura. Dunque Dante attribuisce a questi altorilievi una qualità di espressione, un «[…] visibile parlare» (v. 95) che oltrepassa le capacità degli artisti umani.
Nel primo altorilievo è raffigurata l’Annunciazione. Dante dice che le figure erano scolpite in modo così vero che non sembravano immagini senza parola. Si sarebbe giurato che l’Arcangelo Gabriele dicesse «Ave!» rivolto a Maria e che ella rispondesse «Ecce ancilla Dei!». Non è un caso che il primo sia un esempio mariano. Infatti, in tutte le sette cornici vi è sempre un riferimento a Maria modello delle virtù che si oppongono ai vizi capitali.
Il secondo exemplum raffigura l’ingresso a Gerusalemme dell’Arca Santa tra canti e profumi di incensi, tant’è che Dante mostra di esserne quasi materialmente colpito nell’udito e nell’olfatto. Ma la cosa importante è la danza del re David con le vesti alzate davanti all’Arca, mentre la moglie Micòl si affaccia da una finestra del palazzo reale guardando «[…] dispettosa e trista» (v. 69) la scena. La donna considerava infatti l’atteggiamento del marito disdicevole per un re, così che Dante dice «[…] e più e men che re era in quel caso» (v. 66). Men che re per le vesti alzate e più che re per l’umiltà dimostrata al cospetto di Dio e del popolo.
Infine l’episodio della «[…] vedovella» (v. 77) che ferma addirittura l’imperatore Traiano (53-117) in procinto di partire per un’impresa militare onde ottenere giustizia per il figlio ucciso. Dante descrive il breve colloquio come se effettivamente le figure di marmo parlassero. E Traiano, inizialmente restìo, alla fine, con umiltà, acconsente alla richiesta della povera popolana. Secondo la tradizione medioevale fu Papa san Gregorio Magno (540 ca.-604) che, commosso da tale episodio, pregò e ottenne la salvezza di questo imperatore pagano.
Ebbene, nel descrivere gli altorilievi la prima preoccupazione di Dante è quella di mettere in rilievo la veridicità dei soggetti e delle scene rappresentate. D’altronde anche per il sommo poeta l’arte dev’essere imitazione fedele della realtà. Da ciò derivò una poetica che valuta il pregio di un’opera in base a quanto riesca a ingannare i sensi dello spettatore fingendosi vera. È nota la formula di san Tommaso d’Aquino (1225-1274), «[…] pulchra enim dicuntur quae visa placent» (Summa theologiae I, q. 5, a. 4), «[…] belle infatti sono dette quelle cose che, viste, piacciono». Di fronte a quegl’“intagli” divini Dante rimane estasiato e tuttavia non ne dimentica l’aspetto didascalico quando vede le anime dei superbi sottoposte ai macigni e rannicchiate come cariatidi. La bellezza del significante è allora associata all’importanza del significato, così che verso fine canto il poeta può dire: «O superbi cristian, miseri lassi,/ che, de la vista de la mente infermi,/ fidanza avete ne’ retrosi passi,/ non v’accorgete voi che noi siam vermi/ nati a formar l’angelica farfalla,/ che vola a la giustizia sanza schermi?» (vv.121-126).

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Ad maiorem Dei gloriam et socialem

 


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