n. 38 – marzo 2020
Cari amici,
in questo mese di clausura forzata Alleanza Cattolica in Ferrara propone alla vostra lettura la prima parte della lezione della bioeticista dott. Chiara Mantovani «La persona al centro della politica» tenuta al corso SERVIRE LA CITTÀ organizzato dalla Associazione Progetto San Giorgio il 21 gennaio scorso. A causa dell’emergenza sanitaria sono state sospese le lezioni successive, che comunque verranno recuperate quando sarà possibile.
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La persona al centro della politica (prima parte)
di Chiara Mantovani
Questa sera affronterò il tema della centralità della Persona umana per lo sguardo della politica.
Vi parlerò anche un po’ di bioetica, e chi era presente anche agli incontri precedenti si accorgerà che cercherò di riprendere molti degli spunti tracciati dai precedenti relatori, in particolare dal magistrato Domenico Airoma e dall’amico Renato Cirelli.
Vi parlerò di bioetica perché si tratta dell’ambito a me familiare, ma riprendendo concetti che sono già stati detti perché in quelle premesse, nelle motivazioni e nei ragionamenti che loro hanno già bene illustrato, sono le radici delle soluzioni ai problemi che comunemente oggi vengono chiamati di “bioetica”, perché tutto questo vasto ambito non è solo una questione “tecnica”, una faccenda da “esperti”, bensì riguarda la concezione stessa dell’uomo e della società. Io sono un medico, ma neppure la mia competenza medica è da sola sufficiente ad affrontare questi problemi, c’è bisogno di integrare i fatti con le grandi domande di senso e con le scelte che chi governa è chiamato a compiere.
Ancor prima di poter interpretare i dati che la realtà ci pone davanti, abbiamo bisogno di uno strumento apparentemente banale, ma che costituisce una imprescindibile premessa: quella di spiegare bene il significato delle parole. Un vocabolario, una guida al significato delle parole.
Una delle emergenze nelle quali ci troviamo è che molte parole, che pure usiamo con disinvoltura, non hanno un significato condiviso e spesso vengono fraintese o mal usate, ovvero usate con malizia per introdurre concetti o realizzare progetti talvolta molto lontani dal vero significato originario. Gli antichi dicevano che le parole non sono fatte perché gli uomini si ingannino fra di loro, ma perché ciascuno trasferisca all’altro la bontà del suo pensiero. E, se prestiamo attenzione al modo con cui vengono veicolate le notizie e le idee, ci rendiamo molto bene conto di qual è la potenza dell’uso delle parole in un modo piuttosto che in un altro.
Inizio quindi con qualche piccola definizione.
Bioetica è una parola relativamente nuova, che nasce intorno al 1970 nello studio di un oncologo americano, Van Rensselaer Potter (1911-2001) [1], che si trova di fronte ad un grosso problema di coscienza. Si accorge che la medicina — e in modo particolare la sua disciplina, l’oncologia, allora emergente — sta facendo passi da gigante, ma sta progressivamente cessando di porsi autentici interrogativi etici su se stessa. Sono certamente ancora vivaci certe dispute che da qualche anno erano nate all’interno della comunità scientifica, che possiamo così sintetizzare: il sapere tecnico, il sapere specifico, va troppo velocemente avanti rispetto a quella che è la comprensione degli avvenimenti e dei comportamenti e soprattutto non si fa domande sui risvolti umani che queste scoperte pongono.
Finora ci si è dati alcune regole, ma sono successi episodi, anche disdicevoli — per esempio si è scoperto che negli anni precedenti, dalla metà degli anni cinquanta fino all’inizio degli anni settanta, in certi orfanotrofi si usavano i bambini come soggetti di sperimentazione dei vaccini contro l’epatite, oppure che alcune persone tra gli anziani negli ospizi venivano sottoposte a cure sperimentali — e questi risultati non sono messi in discussione. Di fronte alla loro innegabile efficacia clinica, sono stati pubblicati in autorevoli riviste scientifiche, e nessuno si è domandato in che modo sono stati ottenuti questi risultati, se in maniera corretta oppure no.
Allora Potter si chiede: quale grande responsabilità ci stiamo addossando nei confronti delle generazioni future? È tra i primi ad affermare la consapevolezza di dover lasciare ai nostri figli un mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato. Sente che c’è una riflessione profonda da fare sul fatto che non è detto che, pur avendo strumenti migliori, siamo stati davvero capaci di utilizzarli in maniera umana, degna dell’uomo. C’è bisogno, dice, di una alleanza della modernità con l’umanesimo antico.
La bioetica ha poi un suo sviluppo e da una ventina di anni questo interrogativo profondo — è giusto quel che sto facendo? posso fare davvero tutto quello che le scoperte della tecnica mi permettono di fare? Ci sono dei paletti? — è occasione di confronto e spesso di scontro. Qualcuno dice che la ricerca scientifica in sé non ha bisogno di nessun paletto; altri pensano che la domanda sulla giustezza debba precedere la realizzazione dell’atto; qualcuno si spinge a dire, nonostante tante critiche, che gli uomini non sono mai dei mezzi ma sono sempre dei fini e quindi vanno trattati come tali.
La discussione si fa così accesa che oggi non è limitata solo nell’ambito della bioetica clinica, ovvero delle decisioni che vengono prese nei reparti ospedalieri, presso i letti dei malati. Oggi la maggior parte dei dilemmi sconfinano negli ambiti della biopolitica e della biogiuridica. Questo significa che le decisioni non le prendono più né gli scienziati né i comitati etici — cioè il gruppo di esperti che all’interno delle strutture dovrebbero validare o meno non solo la scientificità dello studio ma anche la sua eticità — bensì che le grandi decisioni vengono prese altrove, tenendo conto di ben altri criteri, dove le ideologie e le logiche di potere hanno grande influenza e determinano leggi che sempre più derivano da strutture sovranazionali, come ad esempio la Comunità Europea, il Parlamento Europeo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che esercitano un potere decisivo tramite Leggi, Trattati e Dichiarazioni cui gli Stati debbono adeguarsi.
Il pericolo di un autoritarismo etico non viene più solo da ciò che succede in laboratori e strutture più o meno trasparenti, più o meno conosciute. Si sono aggiunti, e spesso in modo preponderante, due fattori che si stanno rivelando decisivi: una supplenza della legislazione sulla coscienza e una antropologia che ha relativizzato il ruolo della coscienza. Non si crede più che esiste una verità e che questa debba guidare l’azione alla ricerca di un modo giusto oltre che vantaggioso di vivere e organizzare la società. E non è infrequente che, in modo più o meno velato, la mentalità comune sia indirizzata a pensare che tutto sommato il vantaggio di qualcuno può valere il sacrificio di qualcun altro.
Oggi noi siamo più o meno in questa situazione, con uno sfondo culturale che è quel “mondo a coriandoli” nel quale non c’è modo di mettere d’accordo più di due o tre persone; questa parcellizzazione anche della capacità di giudizio razionale — non solo di giudizio morale — è una delle cause che fanno arrivare nelle aule di tribunale le grandi decisioni che dovrebbero essere prese invece con tutt’altre modalità.
Uno dei “padri nobili” della bioetica è Alasdair McIntyre (1929). È un filosofo che, come spesso accade nel panorama variegato nordamericano, non è cattolico né particolarmente religioso, ma scopre all’interno della dottrina cristiana le quattro virtù cardinali e dice: ma sapete che prudenza, fortezza, temperanza, giustizia potremmo applicarle anche nell’ambito bioetico? Scrive un libro, Dopo la virtù, che è una pietra miliare nella laicissima riflessione sulla bioetica. Ci torneremo.
[1] Nel 1970 appare un suo articolo pubblicato sulla rivista dell’Università del Wisconsin “Perspectives in Biology and Medicine”, con il titolo «Bioetica: la scienza della sopravvivenza». Nel 1971 lo stesso autore raccoglieva vari articoli su questi argomenti in un libro intitolato “Bioethics: Bridge to the future” (Bioetica: un ponte verso il futuro).
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Ad maiorem Dei gloriam et socialem