La «Populorum progressio» nella «Caritas in veritate»
Lezione tenuta il 22 ottobre 2009
prof. Leonardo Gallotta
La Caritas in Veritate, terza enciclica di Benedetto XVI dopo la Deus Caritas est e la Spe Salvi, è sicuramente un’enciclica sociale. Le problematiche socio-economiche affrontate trovano in essa abbondante spazio, anche se viene chiarito che la Dottrina Sociale della Chiesa non solo di questo si occupa, avendo essa anche una dimensione socio-politica e una socio-culturale. Nell’enciclica possiamo individuare due elementi fondamentali e ricorrenti: il primo è la nozione di “sviluppo integrale” già indicato dalla Populorum progressio; il secondo è la minaccia costituita dalla tecnocrazia, nuovo stile di pensiero e di azione anticristiano che dopo la fine delle ideologie – come dice Massimo Introvigne – cerca di sostituirle. Dato che ho citato Massimo Introvigne, desidero premettere che questa lezione tiene in gran parte presente una sua analisi che – posso già preannunciarlo – sarà pubblicata in integro sul prossimo numero di Cristianità. Prima di affrontare il tema vero e proprio della lezione è tuttavia necessario fare alcune considerazioni introduttive all’enciclica di Benedetto XVI, a partire dalla sua stessa denominazione.
“CARITAS IN VERITATE” : LE MOTIVAZIONI DELL’ INCIPIT
San Paolo, nella Lettera agli Efesini, invita a temperare il rigore della presentazione della dottrina con la dolcezza dell’amore, esortando quindi a vivere “secondo la Verità nella carità”. Benedetto XVI afferma che è anche necessario pensare, simmetricamente, alla pratica della “carità nella Verità”. Da qui il titolo della sua enciclica Caritas in Veritate.
Che cosa vuol significare con ciò il Pontefice? La carità, ossia l’amore, è oggi una parola abusata e distorta che può perfino giungere a significare il contrario. La carità, lasciata a se stessa, “scivola nel sentimentalismo” e solo la verità è in grado di fare “uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive”. Ricordo che Sua Eminenza Carlo Caffarra, nell’occasione di un incontro che ebbi con lui quando era Arcivescovo di Ferrara, mi disse che era necessario guardarsi bene dal proporre l’immagine di una Chiesa che fosse l’equivalente della Croce Rossa, ossia un’istituzione esclusivamente specializzata a portar soccorso nelle più disagiate situazioni. Ritrovo lo stesso concetto nell’enciclica, quando il Pontefice afferma: “un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali”.
Se dunque la carità non è solo questione di buoni sentimenti, nel suo significato più ampio e profondo si rivela come “la via maestra della Dottrina Sociale della Chiesa”, che può essere definita come “caritas in veritate in re sociali“, con la conseguenza che l’annuncio della verità, non meno del servizio caritativo ai poveri e ai bisognosi, è forma eminente di carità.
Attingendo alla fede e alla ragione, la Dottrina Sociale della Chiesa propone “criteri orientativi dell’azione morale”, fra cui due sono particolarmente sottolineati da Benedetto XVI: la giustizia e il bene comune.
Quanto al primo, certamente la carità eccede, ossia va oltre, la giustizia, dal momento che amare è donare, cioè offrire gratuitamente. E tuttavia la giustizia è “inseparabile dalla carità”. Da una parte, dunque, la carità esige la giustizia, ossia il riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli e, secondo diritto e giustizia, si adopera per la costruzione della “città dell’uomo”. Dall’altra la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono, in quanto è proprio la carità a dare valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo.
Il secondo criterio enunciato è il bene comune e impegnarsi per esso significa “prendersi cura da una parte e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente, il vivere sociale che in tal modo prende forma di pòlis, di città”. Il dovere politico è per tutti: “ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità di incidenza nella pòlis. E’ questa la via istituzionale – possiamo dire anche politica – della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pòlis“. Debbo confessare che il mio animo si è allargato alla lettura di queste parole, in quanto esse danno ragione dei quindici anni di attività della Scuola di Educazione Civile, tutti spesi per formare dei “cives” cristiani che vivano in modo consapevole, oggi come ieri, le problematiche sociali e culturali poste da un mondo che sembra non avere più alcuna bussola per potersi orientare. L’attività politica è ovviamente da intendersi in senso lato, non riducendosi ad una mera azione partitica. Infatti, dice il Pontefice, “quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico”. E ancora: “L’azione dell’uomo sulla terra, quando è ispirata dalla carità, contribuisce all’edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana”. Adoperarsi per il bene comune significa dunque “dare forma di unità e di pace alla città dell’uomo e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio”.
“POPULORUM PROGRESSIO” E MAGISTERO DI PAOLO VI
Si sa che la Caritas in Veritate avrebbe dovuto essere pubblicata per celebrare il quarantesimo anniversario della Populorum progressio di Paolo VI del 1967 e che la crisi economica, di cui si è voluto tenere conto, ne ha poi ritardato la definitiva stesura e pubblicazione. A tale proposito afferma Benedetto XVI: “A oltre quarant’anni dalla pubblicazione dell’Enciclica, intendo rendere omaggio e tributare onore alla memoria del grande Pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo umano integrale e collocandomi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell’ora presente. Questo processo di attualizzazione iniziò con l’Enciclica Sollicitudo rei socialis, con cui il Servo di Dio Giovanni Paolo II volle commemorare la pubblicazione della Populorum progressio in occasione del suo ventennale”. La Caritas in Veritate propone dunque sia una riflessione articolata sulla Populorum progressio sia un inventario delle principali modifiche sopravvenute, soprattutto in campo socio-economico, in questo lungo lasso di tempo.
Per ciò che attiene al primo aspetto, il regnante Pontefice ricorda previamente che anche i documenti sociali del Magistero vanno sempre letti “dentro la tradizione della Dottrina Sociale della Chiesa, patrimonio antico e nuovo, fuori del quale la Populorum progressio sarebbe un documento senza radici, una mera collezione di dati sociologici”.
Proprio perché la Populorum progressio fu pubblicata subito dopo il Concilio, le questioni della corretta ermeneutica di questa enciclica e del Concilio Vaticano II sono strettamente collegate. Dice infatti Benedetto XVI: “Il legame tra la Populorum progressio e il Concilio Vaticano II non rappresenta una cesura tra il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa. In questo senso, non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della Dottrina Sociale della Chiesa che applicano all’insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. E’ giusto rilevare le peculiarità dell’una o dell’altra Enciclica, dell’insegnamento dell’uno o dell’altro Pontefice, mai perdendo di vista la coerenza dell’intero corpus dottrinale”. La Dottrina Sociale della Chiesa, come, tra l’altro, ho ricordato nella mia lezione inaugurale, non inizia nell’epoca contemporanea. Dice infatti il regnante Pontefice: “La Dottrina Sociale è costruita sopra il fondamento trasmesso dagli Apostoli ai Padri della Chiesa e poi accolto e approfondito dai grandi Dottori cristiani”.
Dunque, se la Populorum progressio va letta coerentemente con l’intero corpus della Dottrina Sociale, essa enciclica va obbligatoriamente letta anche nel contesto del corpus dei documenti di Paolo VI. Dice Benedetto XVI che “è strettamente connessa con il Magistero complessivo di Paolo VI”.
Sappiamo che la Populorum progressio subì una lettura gauchiste. A volte, senza neppure leggerla integralmente, i progressisti la assunsero come bandiera, se non altro perché – certo semplicisticamente, ma a volte anche maliziosamente – il termine progressio rimandava a posizioni di sinistra. A causa di tale lettura, dunque, Paolo VI scrisse nel 1971 la lettera apostolica Octogesima adveniens, in cui, per evitare ogni equivoco, metteva in guardia contro le ideologie del XX secolo. Dice Benedetto XVI che Papa Montini “affrontò con fermezza importanti questioni etiche, senza cedere alle debolezze culturali del suo tempo” e basterebbe a tale proposito ricordare l’enciclica Humanae vitae, del 1968, che condannava l’uso dei mezzi artificiali di contraccezione e che attirò su Paolo VI pesantissime critiche del mondo progressista in genere e cattolico in particolare.
Vediamo ora ciò che, a distanza di oltre quarant’anni, rimane di perennemente e universalmente valido della Populorum progressio. Al centro di tale enciclica sta la nozione di sviluppo che tuttavia non è un semplice concetto economico. Al sostantivo “sviluppo” Paolo VI unisce quasi sempre l’aggettivo “integrale”, per sottolineare che “l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione”, compresa la dimensione teologica e trascendente.
Per Paolo VI lo sviluppo è essenzialmente una vocazione e, afferma Benedetto XVI, “dire che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere, da una parte che esso nasce da un appello trascendente e, dall’altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo”. Qui, propriamente, sta per Benedetto XVI il cuore della Populorum progressio. Contro le ideologie del suo tempo, Paolo VI sottolinea che “la verità dello sviluppo consiste nella sua integralità”, la quale “riguarda dunque sia il piano naturale sia quello soprannaturale”, motivo per cui, “quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il ‘bene’, comincia a svanire”. Infine,”la visione dello sviluppo come vocazione comporta la centralità in esso della carità“, vale a dire il riconoscimento della “fraternità tra gli uomini e tra i popoli”, possibile “nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”.
LE NOVITA’ QUARANT’ANNI DOPO
E’ chiaro che ogni enciclica analizza i problemi così come si pongono in un determinato momento storico e che di tale momento esse risentono. Benedetto XVI rileva ad esempio che alcune speranze alquanto ottimistiche di Paolo VI non hanno purtroppo trovato conferma nella storia: “è questo il caso della valutazione del processo di decolonizzazione” che non ha portato la libertà e la pace in cui sperava Papa Montini, ma spesso nuove forme di oppressione e di corruzione, non solo per colpa dei Paesi ex coloniali, ma anche “per gravi irresponsabilità interne agli stessi Paesi resisi indipendenti”. Paolo VI, poi, si trovava di fronte un avversario – il sottosviluppo – la cui nozione è oggi profondamente cambiata a causa della globalizzazione. Tale fenomeno non deve essere demonizzato, anche perché “è stato il principale motore per l’uscita dal sottosviluppo di intere regioni”. “La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva”. Talvolta, nei suoi confronti, “si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana”. Il problema, dunque, non è per il Pontefice, inveire contro la globalizzazione, ma “correggerne le disfunzioni, anche gravi” e orientarla alla luce della morale, da cui comunque non è indipendente. Il sottosviluppo economico-sociale comunque esiste, anche se nei Paesi cosiddetti ricchi “nuove categorie sociali si impoveriscono” e in quelli cosiddetti poveri la corruzione crea per alcune classi dirigenti disoneste “una sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico”.
Inoltre la possibilità per lo Stato di intervenire per indirizzare l’economia, cui “la Populorum progressio assegnava ancora un compito centrale, anche se non esclusivo”, oggi appare da qualche punto di vista poco realistica, dato che lo Stato stesso trova, di fatto, dei limiti alla sua sovranità “nella crescente mobilità dei capitali finanziari e dei mezzi di produzione materiali”. Per altri versi è prudente – suggerisce Benedetto XVI – “non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato” e forse, contingentemente, a causa della crisi economica, “il suo ruolo sembra destinato a crescere”, anche se, a differenza dei tempi di Paolo VI, oggi siamo più consapevoli del fatto che la nozione di autorità politica ha un significato plurivalente e complesso.
La Populorum progressio confidava pure nei “sistemi di protezione e previdenza” e nel ruolo di vigilanza dei sindacati che oggi però sono profondamente mutati, a fronte della “mobilità lavorativa”, della delocalizzazione e della flessibilità. Nozioni e fenomeni, questi, che possono anche avere aspetti positivi, ma che possono pure produrre una strutturale situazione di insicurezza, per cui il Pontefice afferma che occorre stare in guardia, dal momento che – convergendo in questo caso scienza economica e valutazione morale – “i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani”.
Per ciò che riguarda le organizzazioni sindacali, Benedetto XVI rivolge loro l’invito a non rimanere prevalentemente chiuse nella difesa dei propri iscritti e a volgere lo sguardo “verso i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati. La difesa di questi lavoratori, promossa anche attraverso opportune iniziative verso i Paesi di origine, permetterà alle organizzazioni sindacali di porre in evidenza le autentiche ragioni etiche e culturali che hanno loro consentito, in contesti sociali e lavorativi diversi, di essere un fattore decisivo per lo sviluppo. Resta sempre valido il tradizionale insegnamento della Chiesa, che propone la distinzione di ruoli e funzioni tra sindacato e politica. Questa distinzione consentirà alle organizzazioni sindacali di individuare nella società civile l’ambito più consono alla loro necessaria azione di difesa e promozione del mondo del lavoro, soprattutto a favore dei lavoratori sfruttati e non rappresentati, la cui amara condizione risulta spesso ignorata dall’occhio distratto della società”.
Oltre al sottosviluppo economico e sociale esiste poi un sottosviluppo “morale”. Il rischio, secondo il Pontefice è che i Paesi ricchi esportino, nei Paesi poveri dove delocalizzano, “un eclettismo culturale assunto spesso acriticamente”, all’insegna del più completo relativismo. Ma vi è pure di peggio: i Paesi più sviluppati cercano di esportare in quelli poveri “mentalità antinatalista”, da cui derivano leggi sull’aborto e diffusione massiccia di anticoncezionali. L’esportazione del sottosviluppo morale avviene anche attraverso la scuola e quindi attraverso un’educazione che ignora i valori religiosi e morali. E perfino attraverso il turismo che – anche prescindendo dai casi perversi del turismo sessuale – non di rado esporta nei Paesi poveri uno stile di vita “edonistico” e un vero e proprio “degrado morale”.
IN VIA DI CONCLUSIONE
Benedetto XVI, riprendendo infine temi cruciali e tipici del suo Magistero, indica nel fondamentalismo (sola fides) e nel laicismo (sola ratio) i principali ostacoli a quello sviluppo umano integrale che abbiamo visto esser così importante nella Populorum progressio. Dopo aver ribadito che lo sviluppo integrale è possibile “solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica“, il regnante Pontefice afferma: “Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità”.