La società secondo l’Islam. Le fonti

Lezione tenuta il 30 ottobre 2014

Prof. Leonardo Gallotta

La società secondo l’Islam. Le fonti

 

Circolano in Occidente alcune idee preconcette, nonché affermazioni generiche relative alle religioni in genere. Da una parte si dice che tutte le religioni mirano alla pace, dall’altra che tutte le religioni hanno dato luogo a guerre e sono state caratterizzate da manifestazioni di intolleranza. E ancora: in tutte le religioni vi è del buono e del superato oppure “una moschea è un luogo di preghiera simile alla chiesa per i cristiani”. Tutte queste affermazioni generiche sono più atte a eludere e ad occultare il problema che a chiarirlo. Per ciò che riguarda l’Islām non si può trascurare la connessione fra società civile e comunità religiosa, anche perché l’Islām definisce se stesso come din wa-dunyà wa-dawlah, vale a dire che esso è al tempo stesso e religione e vita sociale e potere politico. Fin dall’origine, fin dal 622, quando Muhammad (Maometto) fuggì a Yathrib per creare la sua città, Medina, l’Islām è stato pensato come un progetto socio-politico-culturale basato su una visione perfettamente definita del Dio unico che detta i comportamenti umani.

Andremo dunque ad esaminare le fonti a partire dalle quali si costruisce quello che Giovanni Cantoni ha definito “il grande modello”. Il Corano, da al-qur-an, cioè “il (testo) da recitare”, è certamente la principale fonte e però bisogna tener presente che il punto di partenza del messaggio è un “quadro biblico”. Infatti la Sura XX ci dice: “Già imponemmo il patto ad Adamo, ma lo dimenticò perché non ci fu in lui risolutezza“. Per inciso, un punto quasi sempre trascurato quando si parla di Islām è l’assenza della nozione di “peccato originale” con le conseguenti ferite, sostituita secondo il credente musulmano dalla nozione di una generica “debolezza” individuale, dovuta alla creaturalità dell’essere umano. Non v’è chi non possa valutare la portata di questa assenza, visto che il catechismo della Chiesa Cattolica ci dice: “Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi“.

Torniamo al Corano. Esso è la raccolta in forma scritta definitiva delle rivelazioni che Dio avrebbe trasmesso a Muhammad attraverso l’angelo Gabriele, rivelazioni iniziate nel periodo fra il 610 e il 612 e continuate fino alla sua morte. È un testo che si vuole dettato da Dio stesso al suo profeta e quindi non ispirato, come diciamo noi cristiani per il Vecchio e il Nuovo Testamento. È un testo suddiviso in 114 “sure” o capitoli raccolti secondo un criterio quantitativo decrescente ad eccezione della prima, detta l’ Aprente, e indicate con un titolo. Altra fonte importantissima è la Sunna, vale a dire la “tradizione” del profeta, cioè informazioni ed esempi trasmessi attraverso gli hadith, cioè “detti e fatti del profeta”, oggi ridotti a circa diecimila e variamente organizzati dai raccoglitori dei testi trasmessi. L’appello lanciato da Muhammad a La Mecca vi trova però ostacoli e allora il profeta “emigra” a Yathrib che viene ribattezzata Medina, cioè la “città” per antonomasia. È l’inizio della “emigrazione” di Muhammad, cioè l’Egira e siamo nel 622, anno da cui si computa la nuova era, quella musulmana.

Dall’accoglienza dell’annuncio all’adesione a esso nasce la comunità, la ummah. Tale comunità è costituita dai credenti musulmani che praticano i cosiddetti “pilastri dell’islām” che consistono: 1) nella professione di fede 2) nella preghiera 3) nel digiuno 4) nell’elemosina 5) nel pellegrinaggio. Tali credenti, ovunque si trovino, sono chiamati alla preghiera cinque volte al giorno dall’appello del muezzin e il venerdì, guidati dall’ imam che pronuncia anche la predica, alla moschea, dove si trovano pure il recitatore del Corano e il muftì, il giureconsulto ufficiale. È proprio nel Corano e nella Sunna che sono presenti gli elementi costitutivi della Sharìa, ossia la legge da seguire, equivalente alla torah ebraica. Essa non riguarda solo l’ambito religioso, culturale, morale in senso stretto, ma anche tutti gli aspetti profani della vita. Non si limita a suggerire quelle che oggi denominiamo le “opzioni” fondamentali dell’uomo. Essa determina nei dettagli, nella concretezza, gli atteggiamenti, le azioni, le osservanze quotidiane. Per tutte le situazioni che non trovano risposta né nel Corano né nella Sunna, vale il consenso della comunità che si riduce alla fin fine nel consenso dei giuristi islamici. Infatti c’è tutto un insieme di ulema (dottori) e fuquahà (giuristi) che rappresentano un magistero giudiziario esercitato da funzionari religiosi autorizzati e pagati dall’autorità statale. Sono essi che forniscono al giudice gli elementi giuridici per emettere la fatwa, cioè la sentenza.

Riprendiamo ora il discorso su din, dunyà e dawlah, vale a dire religione, vita sociale e potere politico. Alcuni islamologi negano che sempre e comunque vi sia compenetrazione fra questi tre aspetti e attribuiscono l’idea di compenetrazione a frettolosi riassunti divulgativi. Eppure così non è. Bernard Lewis, orientalista della statunitense Princeton University ha affermato che “l’Islam è teocratico in linea di principio e spesso nella pratica. Teocrazia significa governo di Dio. E in questo senso l’Islam è sempre stato una teocrazia. Nella Roma antica Cesare era Dio. Nel Cristianesimo Cesare e Dio coesistono. Nell’Islam Dio è Cesare, in quanto Egli solo è il capo supremo dello Stato, fonte della sovranità e perciò anche dell’autorità e della legge. Lo stato è lo Stato di Dio, la legge è la Legge di Dio, l’esercito è l’esercito di Dio e naturalmente il nemico è il nemico di Dio”. Dunque, come dice il Rizzardi, “La Sharìa deve essere realizzata pienamente, deve trovare accoglienza incondizionata, proprio perché Legge di Dio. La mancanza di successo è la sconfitta di Dio e il fallimento della recitazione e della testimonianza del predicatore. In questa prospettiva assume significato l’higrah (emigrazione) del profeta, in quanto segna il ‘trionfo’ della Parola. La Jihad entra nella fase di “testimonianza forte” mediante il coinvolgimento in primo piano anche della statalità. Il Profeta progetta la “città islamica, per la quale tutte le componenti, individuo, gruppo e potere sono convocate insieme a stabilire la Sharìa internamente ed esternamente al gruppo islamico”.

Posto che il buon musulmano ha dichiarato la sua sottomissione a Dio nella professione di fede, non può che essere sottoposto alla sua Legge, cioè appunto la Sharìa che è il codice dettagliato di condotta, con i canoni che descrivono i modi del culto, con i criteri della morale e della vita, le cose permesse e quelle proibite, le leggi che separano il bene dal male. Qual è allora il tipo di uomo e di società che l’islām desidera produrre? Di sfuggita ricordo che il termine islām deriva dalla radice s- l- m, da cui anche salàm e muslim (musulmano). Significa fondamentalmente pace, ma secondariamente “resa” e quindi sottomissione. Il significato potrebbe pertanto essere reso con una perifrasi: “la pace che giunge quando la vita è completamente sottomessa a Dio”. La Sharìa può essere definita l’organizzazione di tutta la vita individuale e collettiva secondo le prescrizioni della legge positiva divina, come è stata rivelata agli uomini tramite Muhammad. Essa è divisa in due sezioni dai musulmani. La prima definisce il culto e i suoi riti, enumerando gli articoli del credo ed esponendone il commento, ossia fede in Dio, nei suoi angeli, nei suoi libri, nei suoi profeti e inviati, nel giudizio finale. Ma, ed è la seconda sezione, la Sharìa comprende anche le leggi che regolano i rapporti umani, dal matrimonio al commercio e all’industria, attraverso codici di procedura. Vengono pure indicate le pene per gli autori di reati: legge del taglione (in caso di omicidio volontario), la conciliazione con il versamento di una somma per il sangue versato in caso di omicidio involontario, in caso di furto il taglio della mano destra e per i recidivi del piede sinistro, per il brigantaggio morte o amputazione, per l’uso di bevande alcoliche la flagellazione, flagellazione anche per la fornicazione e lapidazione per l’adulterio. Infine, per l’apostasia, la condanna a morte.

Nel Corano si parla delle genti del Libro, cioè le comunità religiose che vi vengono citate con rispetto, vale a dire Ebrei e Cristiani. Sono molte infatti nel testo le citazioni di episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Rispettati come profeti sono Abramo e Mosè e così pure Gesù. Nel Corano è pure citata Maria per la quale, come madre di Gesù, vi è una certa venerazione. I Vangeli sono considerati in parte una falsificazione, per cui i musulmani credono solo ai detti e ai fatti di cui è protagonista Gesù Cristo, ma non nella sua Passione e morte. È detto infatti nel Corano che Gesù era stato sostituito con un altro condannato. Da qui il rifiuto del Crocifisso. Nella società islamica sono accettati Ebrei e Cristiani e vi possono vivere più o meno tranquillamente, a patto che versino la jizya, il tributo che conferisce loro lo status di dhimmiy (protetti). In compenso sono esentati dalla decima riservata ai musulmani e dal servizio militare. Il dhimmiy può partecipare alla vita sociale e amministrativa fino a un certo grado, ma non alla vita politica. Men che meno può annunciare il Vangelo e cercare di fare proseliti. Di fatto è impedito ogni tentativo di implantatio ecclesiae che non significa, evidentemente, la sola costruzione di un edificio, il che d’altronde è quasi impossibile. Una comunità cristiana è quindi destinata a crescere assai poco, anche perché l’unica possibilità di crescita e di maturazione concessa è quella di diventare musulmani. Ma se per caso un musulmano volesse diventare cristiano, od anche israelita o ateo, peccherebbe di apostasia e vi sarebbe quindi per lui la condanna a morte da eseguirsi anche da familiari o da singoli musulmani, qualora il tribunale non emettesse tale condanna. È comunque prevista la dissimulazione (tukya) della fede quando palesare la fede musulmana potrebbe essere gravemente lesivo della vita, dell’incolumità personale o della libertà.

Andiamo ora a conclusione con alcune considerazioni sulla jihad, termine che indica correntemente la “guerra santa” islamica. Questo termine è usato dai musulmani per indicare quasi un sesto “pilastro dell’islām”, il che non è, anche se da molti è sentito come tale. Sicuramente è ritenuto un obbligo collettivo quando si tratta di portare le armi nel territorio degli infedeli e diventa un dovere personale, che non tollera esenzioni, quando il nemico minaccia la terra islamica. Come premessa ricordo un hadith del Profeta: “L’islām domina e non può essere dominato”, ma anche un altro: “Il Paradiso lo si trova all’ombra delle spade”. Interessante e utile, a proposito di jihad, le considerazioni del tunisino Muhammad Ibn Haldun, autore lontano nel tempo, ma ancor oggi molto considerato. Così scrive: “In ragione della necessità di un governo politico per ogni organizzazione sociale umana, gli uomini hanno bisogno di chi sia capace di perseguire il loro bene, impedendo loro, anche con la forza, di fare ciò che può loro nuocere. Questa persona è il sovrano. Ora, nella comunità islamica, la guerra santa è un dovere canonico, a causa del carattere universale della missione dell’Islam, e dell’obbligo di convertire tutto il mondo, volente o nolente che sia. Ecco perché potere temporale e potere spirituale sono in questo caso confusi: il sovrano può dedicarvi le sue forze contemporaneamente”. Da ciò si evince che la “guerra santa” deve essere condotta in una prospettiva non di libera e volontaria conversione universale, ma di universale dominio. Oggi in ambito musulmano ci sono sì tentativi di rilettura della jihad in termini di movimento missionario, ma – ci ricorda Padre Borrmans, autore di Risveglio islamico o rinnovamento musulmano? – i movimenti musulmani che vorrebbero essere principalmente “spirituali”, conservano sempre in sé, a causa del Corano, della Sunna e della Sharìa, la vocazione o la pretesa di instaurare un nuovo ordine islamico. E il domenicano francese Jacques Gomier ci dice: “Per quanto ne sappiamo, l’Islam è l’unica religione che ha iscritto la politica nel suo credo. Non è quindi la missione a possedere valore primario, ma il potere“. La realizzazione di una ummah unica e una, sotto un’unica sharìa, guidata da un unico califfo rimane un’utopia. Ciononostante l’ideale della ummah è presente e vivo in tutti i popoli musulmani, così che Giovanni Cantoni ha parlato di “tensione utopica di una religione politica”. Se l’ideale è quasi irraggiungibile e si può, caso mai, parlare di diversi gradi di approssimazione nei diversi paesi, la sua realizzazione rimane la conditio sine qua non della stessa felicità eterna e della sua premessa terrena, vale a dire il rispetto della Legge attraverso la sua adozione da parte del potere. Diamo infine la parola (siamo agli inizi degli anni 50 e l’opera si intitola ‘L’islam e l’organizzazione della città’), all’egiziano Sayyd Qutb: “Questa religione non è sorta per ritirarsi negli eremi e nei templi, né per rifugiarsi nei cuori e nelle coscienze. Essa è venuta per esercitare il potere sulla vita e disporne liberamente non solo attraverso l’esortazione e il consiglio, ma anche grazie ai poteri legislativo e amministrativo. Questa religione si è manifestata per tradurre i suoi princìpi e i suoi punti di vista in forme di vita concreta, per imporre i suoi ordini e i suoi divieti a una società e a un popolo fatto di carne e sangue, che si muova su questa terra e che nel comportamento, nell’organizzazione della vita, nei legami sociali e nella forma di governo sia un modello di applicazione dei princìpi, delle concezioni, delle regole e delle leggi di questa religione. Chi dunque capisce la vera natura di questa religione, si rende perfettamente conto dell’assoluta necessità che il movimento islamico comprenda, oltre all’impegno della predicazione, anche la jihad, la lotta armata, e che questa non è da intendersi come guerra di difesa”. A fronte di queste parole che da altri vengono oggi ripetute son certo che anche il più pacifico dei musulmani non rimanga insensibile. Ieri come oggi la musica non cambia. Un ostaggio di jihadisti ha recentemente rilasciato questa dichiarazione: “Non avrei mai creduto di finire così, perché io ero venuto qui per fare del bene.” Vogliamo ancora credere che il bene fatto da cristiani, cioè da infedeli, in terra islamica, interessi a qualcuno?


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