Fede e scienza: alle origini di un rapporto – seconda lezione
Questi appunti sono la rielaborazione riassuntiva della seconda delle quattro lezioni tenute dal dott. Luciano Benassi alla Scuola di Educazione Civile sul tema Storia della Scienza il 7 marzo, l’11 aprile, il 16 maggio e il 6 giugno 1996.
dott. Luciano Benassi
2.2. L’antica India
Presso gli antichi Indù, la visione animistica della totalità dell’esistenza era ancora più marcata e produsse immagini mitologiche di straordinario vigore espressivo. Essi vedevano se stessi come parte di una natura e di un universo interamente impregnati di una vitalità biologica e personale. L’universo è visto, di volta in volta, come un enorme uovo collocato nel ventre di una divinità bisessuale, oppure come il prodotto della traspirazione del corpo di Visnu rappresentato da acque senza fondo: da ogni follicolo usciva un universo in forma di bolla che poco dopo scoppiava.
La caratteristica delle cosmogonie induiste è quella di presentare un ineluttabile ciclo di nascita-morte-rinascita, senza inizio né fine e sostanzialmente privo di senso. La ritualità religiosa induista e la letteratura etica e mitologica – come quella dei Purana, composti intorno al 500 d.C. – testimoniano di un drammatico bisogno di sfuggire al carattere sinistro e soffocante del grande “mulino cosmico” che ciclicamente ritorna su se stesso. La costruzione degli edifici, per esempio, era accompagnata da una serie di gesti simbolici che rivelano il desiderio di esorcizzare il dominio del tempo (l’astrologo indicava il luogo su cui posare la pietra angolare, luogo che doveva collegare l’edificio al centro del mondo; il muratore, a sua volta, infilava un piolo nel terreno per immobilizzare la testa del serpente, simbolo del caos. Con questa azione egli ripeteva il gesto di Indra, che vinse il serpente con il fulmine e assicurò stabilità e atemporalità a ciò che era stato creato da caos).
Tra gli effetti di questa concezione del cosmo ci fu la rassegnazione all’era di Kaliyuga, il tempo lunghissimo dell’ignoranza, della povertà e delle malattie che, secondo il calendario, doveva durare circa 400 mila anni. L’impatto di una simile credenza sulla vita civile e culturale delle popolazioni indù fu un clima di generale rassegnazione e fatalismo. Le parole del re Brihadrata nelle Svetasvatara Upanishad – “Nel ciclo dell’esistenza sono come una rana in un pozzo senz’acqua” – sono l’ammissione dell’impossibilità di uscire dai cicli eterni della ruota cosmica. Dal punto di vista del pensiero scientifico, un universo ciclico e oscuramente vitalistico come quello indù è l’esatto contrario di ciò che può essere interrogato scientificamente. “Non che mancasse il talento” spiega dom Stanley L. Jaki. “L’antica India è il luogo della nascita del calcolo decimale – compreso il valore posizionale per i multipli di dieci e per lo zero, forse la più grande scoperta scientifica mai fatta. Ci si aspetterebbe che il continuo uso dello zero matematico avrebbe dovuto sensibilizzare sulla differenza tra essere e non-essere. E lo fece, ma solo per rafforzare la convinzione che ciò che è, deve essere da sempre e non potrebbe mai mancare di esistere“.
L’ ombra della cosmogonia induista si è estesa nella storia fino all’India moderna, con la sua incapacità di produrre progresso materiale in modo organico e in collegamento con una mentalità scientifica. Lo stesso Gandhi, considerato il padre dell’India moderna, idealizzava il pensiero indù tradizionale al punto da ritenere preferibile la sua civiltà senza macchine e senza tecnologia, dove “usiamo lo stesso tipo di aratro che esisteva migliaia di anni fa“, ai “sistemi di competizione che consumano la vita“. In un servizio del New York Times del 10 maggio 1987 si può leggere che in India il rapporto tra vacche sacre e popolazione umana è di 1 a 2, mentre solo 1/3 dei 500 mila piccoli villaggi è collegato alle città da strade, peraltro percorribili solo con carri trainati da buoi o con jeep sofisticate.
2.3. Il mito della Cina “moderna”
Chiudo questa rassegna sulle nascite abortite della scienza in Estremo Oriente parlando brevemente della Cina, un altro caso clamoroso di occasioni mancate per lo sviluppo scientifico. Artisti e letterati videro nella Cina un’alternativa alla delusione verso la scienza maturata sulla scia della prima guerra mondiale. Il motivo dominante di quella curiosità verso il gigante asiatico era l’opinione – attribuita ai saggi cinesi tradizionali – secondo cui non c’era bisogno di alcuna scoperta scientifica per illuminare la mente dell’uomo poiché bastavano la filosofia e la religione. L’uomo cinese “sentiva la continuità dell’universo: riconosceva il legame tra la sua vita e quella di animali, uccelli, alberi e piante. E pertanto si accostava alla vita con rispetto, attribuendo ad ogni esistenza il suo giusto valore“. Questa osservazione, fatta negli anni 1950 da uno studioso di cose orientali, è ancora molto attuale in tempi di ecologismo profondo e di new age. Tuttavia essa presenta una contraddizione evidente: se la cultura cinese non ha mai prodotto la scienza, quale merito può avere nel non esserne mai stata delusa? Quale merito si può riconoscere ad una civiltà per il fatto di non essere mai stata delusa dalla pittura e dalla musica, se essa non ha mai prodotto pittori o musicisti?
Contraddizioni di questo tipo erano ugualmente presenti anche in affermazioni di intellettuali occidentali di formazione scientifica. Bertrand Russell fu uno di questi. Molto prima dell’avvento del comunismo in Cina e molto prima della rivoluzione culturale di Mao Tse Tung – che alla fine degli anni 1960 suscitò tanti entusiasmi fra i gauchiste nostrani -, Bertrand Russell tentò di conciliare l’evidente arretratezza delle conoscenze scientifiche in Cina con il fatto che la millenaria cultura cinese, in apparenza, non avesse niente di ostile contro di esse, e anzi ne pronosticò il sicuro diffondersi senza “nessuno di quegli ostacoli che la Chiesa pose al loro avanzare in Europa“. Al di là di queste affermazioni, la contraddizione rimaneva. Mille anni prima i Cinesi conoscevano i magneti, la polvere pirica e la tecnologia della stampa a blocchi, precorritrice della stampa a caratteri mobili: come era possibile che Confucio e la sua dottrina etica non avessero trasmesso nessuna forma di entusiasmo e di curiosità verso quelle novità straordinarie?
Secondo il cliché empirista e baconiano, in virtù del quale la scienza progredisce per piccoli passi, lo stato della scienza in Cina agli inizi del secolo avrebbe dovuto trovarsi in condizioni assai diverse da quello in cui versava poiché la cultura cinese traboccava di conoscenze empiriche. Eppure la curiosità scientifica, che nasce da un atteggiamento di stupore di fronte ad un creato, non prese mai il largo. Uno dei maggiori studiosi contemporanei di storia della scienza in Cina, John Needham, di formazione marxista, riconosce che le ragioni del fallimento scientifico della civiltà cinese sono di ordine “teologico”. Egli afferma, in particolare, che l’avvento della cultura confuciana ha allontanato i cinesi dalla fede in un solo Dio – creatore e legislatore -. La conseguenza fu l’identificazione quasi panteistica di uomo, società e natura e, quindi, l’impossibilità da parte della mente umana, di comprendere una natura non più soggetta a una signoria trascendente, non più governata da leggi.
2.4 Culture non isolate: l’area mesopotamico-mediterranea
Poche considerazioni per rispondere ad un’obiezione naturale che può sorgere di fronte alla tesi sviluppata fino a questo punto. Il tratto comune alle tre antiche civiltà – egiziana, indù e cinese – è che la scienza vi è nata già morta, nonostante la disponibilità, in ciascuna di esse, di talenti, organizzazione sociale e lunghi periodi di pace. La storiografia scientifica moderna, che normalmente considera questi fattori sociologici determinanti per lo sviluppo scientifico, non spiega questi grandiosi fallimenti. L’obiezione, o spiegazione alternativa a quella “teologica” che abbiamo preso in considerazione, riguarda il fatto che quelle civiltà erano “isolate” le une dalle altre, nello spazio e nel tempo: pertanto – si dice – l’accumulo di conoscenze, per quanto notevole, non fu mai tale da innescare un vero interesse per la natura, cioè un interesse di tipo scientifico.
Come controprova di questa tesi, si può portare il caso del fallimento scientifico nell’area mesopotamico-mediterranea che, quanto a presenza di civiltà e a contatti fra civiltà, non è seconda a nessuno. In questa area geografica, così vicina a noi non solo geograficamente, Sumeri, Babilonesi, Assiri, Persiani, Greci e Arabi costituiscono un caso interessante di successione di civiltà in cui vi è un enorme passaggio di conoscenze, ma senza che in nessuna di esse si verifichi la nascita di qualcosa che assomigli alla scienza. L’analisi del caso babilonese in particolare dimostra, ancora una volta, che è la concezione del cosmo e della sua origine la causa del fallimento scientifico.
Le scoperte archeologiche relative alla civiltà babilonese rivelano elevatissime conoscenze in campo matematico, astronomico e chimico. Le celebri tavolette di creta ritrovate a partire dal secolo scorso mostrano che i babilonesi conoscevano strutture algebriche riconducibili alle equazioni di secondo grado, elenchi di centinaia di piante e composti chimici accompagnati da descrizioni delle loro proprietà, ed elenchi lunghissimi di posizioni planetarie. Queste ultime rivelano che Ipparco si basò sui dati astronomici babilonesi per scoprire la precessione degli equinozi, una delle più grandi scoperte scientifiche di tutti i tempi. La stessa scrittura, non geroglifica, è indice di una straordinaria capacità di astrazione. In altri termini, già presso i Babilonesi, sono presenti molte delle condizioni che possono portare alla nascita della scienza.
Tuttavia altre tavolette di creta rivelano che, accanto a questi fatti, convivono credenze mitico-religiose elementari e violente. In un arco di duemila anni, le culture mesopotamiche dimostrano un attaccamento costante a credenze irrazionali circa l’origine del mondo e il suo governo, tutte riconducibili alla concezione del cosmo come un’enorme animale la cui pericolosa irrazionalità può essere placata solo con gesti altrettanto irrazionali. Le feste di Akitu, una settimana di orge per festeggiare l’inizio del nuovo anno, sono la prova di questo cuore oscuro che pulsa sotto l’apparente “modernità” del mondo mesopotamico. D’altra parte, la stessa narrazione della cosmogonia babilonese, l’Enuma elish, è il racconto di forze della natura personificate, ingaggiate in sanguinose battaglie. E le parti del mondo – cioè il cielo, la terra, le acque e l’aria che altrove diventeranno anche l’oggetto della ricerca scientifica – risultano dallo smembramento della dea madre Tiamat. È il caso di ricordare qui come sia ancora diffusa la convinzione, presso gli studiosi e presso il pubblico, che la cosmogonia babilonese costituisca il modello seguito dall’autore del primo capitolo della Genesi. “Al massimo – osserva Stanley L. Jaki – quel modello fornisce alcune espressioni verbali, ma certamente non il messaggio di Genesi 1 che, a paragone della Enuma elish, appare come l’incarnazione della stessa razionalità“.
A conclusione di questa parte, il fallimento dell’impresa scientifica nelle culture antiche si può spiegare estendendo ad esse il giudizio che il già citato John Needham formulò riguardo alla Cina: quelle culture persero il coraggio intellettuale di investigare fenomeni di piccola scala dopo avere perduto fiducia nella loro razionalità sulla scala più grande possibile (cioè il cosmo).