Storia della economia del Novecento — prima lezione
Lezione tenuta dal dott. Mario Gallotta il 25 gennaio 2001
Mario Gallotta
Contributi per la comprensione del Novecento:
Storia della economia del Novecento — prima lezione
Prima di affrontare la storia del Novecento da punto di vista economico credo sia giusto porsi alcune domande circa l’economia e successivamente ricostruire i passaggi fondamentali dei secoli precedenti, perché diversamente risulterebbe difficile capire che cosa è successo nel secolo che abbiamo appena lasciato alle nostre spalle.
Fatta questa premessa dobbiamo chiederci innanzitutto se l’economia, che alcuni intendono come scienza, altri come disciplina, altri ancora semplicemente come una delle molteplici attività umane, sia indipendente dai principi etici. In una domanda: le scienze economiche sono autonomi ambiti del sapere, scindibili dalla legge morale? L’economia è una disciplina paragonabile al calcio o all’arte culinaria, cioè ad attività che non rispondono, almeno in maniera diretta, alla legge morale? La risposta della Chiesa è sempre stata molto precisa su questo punto.
Se infatti occorre ricordare che la Chiesa ha una propria dottrina sociale, ma non ha una dottrina economica, ciò non significa tuttavia che vi sia indifferenza rispetto alle scelte economiche. Perciò noi ci porremo dall’angolo visuale della Chiesa e della morale cattolica nell’illustrare il percorso dell’economia nel nostro secolo.
Orbene, Pio XI, nella Quadragesimo anno, si esprime in questi termini: “Sebbene l’economia e la disciplina morale, ciascuna nel suo ambito, si appoggino sui principi propri, sarebbe errore affermare che l’ordine economico e l’ordine morale siano così disparati ed estranei l’uno all’altro, che il primo in nessun modo dipenda dal secondo. Certo, le leggi, che si dicono economiche, tratte dalla natura stessa delle cose e dall’indole dell’anima e del corpo umano, stabiliscono quali limiti nel campo economico il potere dell’uomo non possa e quali possa raggiungere, e con quali mezzi; e la stessa ragione, dalla natura delle cose e da quella individuale e sociale dell’uomo, chiaramente deduce quale sia il fine da Dio Creatore proposto a tutto l’ordine economico”.
Pio XI poi parla della legge morale e aggiunge: “E ove a tal legge da noi fedelmente si obbedisca, avverrà che tutti i fini particolari, tanto individuali quanto sociali, in materia economica perseguiti, si inseriranno convenientemente nell’ordine universale dei fini, e salendo per quelli come per altrettanti gradini, raggiungeremo il fine ultimo di tutte le cose, che è Dio, bene supremo e inesauribile per se stesso e per noi”.
Queste parole sono state confermate successivamente da tutti i pontefici che si sono susseguiti sul soglio di Pietro e, fra le tante affermazioni, ne cito una del 1988 di papa Giovanni Paolo II il quale ha affermato che “il solo criterio del profitto non basta, soprattutto quando fosse eretto a criterio assoluto: guadagnare di più per possedere di più, e non soltanto oggetti tangibili ma partecipazioni finanziarie che consentono nuove forme di proprietà sempre più larghe e sempre più dominatrici. Non che il mirare ad un profitto sia cosa di per sé ingiusta: un’impresa non potrebbe farne a meno. La ricerca ragionevole del profitto, del resto è in rapporto con il diritto di iniziativa economica che ho difeso nell’enciclica Sollicitudo rei socialis. Quel che intendo dire — conclude il Pontefice, il quale teneva un discorso all’Agricenter della fiera di Verona nel 1988 — è che per essere giusto il profitto deve essere sottoposto a criteri morali, in particolare a quelli connessi col principio di solidarietà”. È la conferma in chiave più attuale di ciò che la Chiesa, in realtà, ha sempre insegnato.
Sempre per chiarire le premesse di fondo: se noi riflettiamo sulla storia delle nazioni ci accorgiamo che non si parte mai dall’economia o dal diritto: in realtà si parte da una visione del mondo, da quella che i tedeschi chiamano la weltanschauung. Poi, da quella visione del mondo, si passa alle scelte giuridiche e alle scelte economiche, o, se vogliamo, dalle scelte economiche a quelle giuridiche che regolano poi i rapporti — anche economici — tra gli uomini. Spesso quando parlo in pubblico di questi argomenti pongo una domanda un po’ provocatoria: se noi aprissimo un codice civile sovietico degli anni Trenta troveremmo delle norme giuridiche che tutelano la proprietà privata? Certamente no! E per quale motivo? Tutti lo sappiamo: perché la proprietà privata, in uno stato collettivista qual era l’Unione Sovietica veniva giudicata come la fonte di tutti i mali, come sorgente di ingiustizie, come qualche cosa che doveva essere eliminato. Allora vediamo che la norma giuridica regola dei rapporti economici che prescindono, in uno stato collettivista, dalla proprietà privata. A questo punto la seconda domanda ne reca in grembo una terza: e perché non c’era la proprietà privata? Nell’Unione Sovietica non c’era perché si era verificata la Rivoluzione di Ottobre, cioè si era concretizzato nell’Unione Sovietica quel fenomeno che noi tutti conosciamo, l’affermazione del cosiddetto “socialismo reale”, con tutte le sue caratteristiche, le sue varie fasi, la Rivoluzione di Ottobre e le vicende storico-politiche conseguenti. Quindi, in realtà, è chiaro che se in una società si parte da una visione cristiana del mondo, da una visione cristiana delle cose, poi anche le scelte di natura economica e di natura giuridica sono conseguenti a questo tipo di visione fondamentale; laddove invece la visione fondamentale sia di tipo comunistico, ad esempio, è ovvio che le scelte conseguenti di natura economica e di natura giuridica non possono essere in contraddizione con quelle che sono le premesse (salvo poi gli accidenti della storia, perché sappiamo per esempio che ad un certo punto Lenin, quando i russi stavano morendo di fame, compresi i capi, lanciò la NEP, la Nuova Politica Economica; ma si tratta di situazioni del tutto eccezionali per impedire, quando si può, che la barca affondi. Anche in quei casi vale il detto che l’eccezione conferma la regola: exceptio firmat regulam, come già ci insegnavano i Romani. Lo dico perché non bisogna mai dimenticare che l’eccezione è tale in quanto esiste una regola:se no, non parleremmo di eccezione).
E proprio riferendoci all’Unione Sovietica (e, più in generale, agli stati collettivisti e comunisti), possiamo illustrare un ragionamento che secondo me è fondamentale per capirci quando parliamo di economia, proprio sulla base di ciò che diceva Pio XI. Dopo aver affermato che le scelte economiche non sono indipendenti rispetto alla legge morale, Pio XI dice che le leggi che si dicono economiche risultano “tratte dalla natura stessa delle cose e dall’indole dell’anima e del corpo umano”. Mi pare ovvio scorgere in tali affermazioni un chiaro riferimento a quello che è l’ordine naturale e cristiano. Esse, inoltre, contengono un monito: bisogna sempre tener presente che l’uomo è quello realmente creato da Dio e non il frutto della nostra immaginazione. Diversamente si disegna un progetto utopistico e poi, quando lo si vuole per forza realizzare, si provocano i disastri: e ciò anche nel caso in cui chi ha queste visioni utopistiche sia sorretto da una buona fede iniziale (non è il caso dei comunisti, come sappiamo). Infatti, quando si vuole che l’utopia si incarni ad ogni costo nella storia, si opera come colui che vuole cuocere in dieci minuti una torta che deve stare nel forno almeno un’ora. L’unico risultato del nostro cuoco frettoloso sarà quello di bruciare la torta, destinata infine ad esser gettata nella spazzatura. Come dice un vecchio proverbio vietnamita, non bastano nove donne per fare un bambino in un mese: se sono necessari nove mesi, nessuno può accorciare tale lasso di tempo. La natura ha i suoi ritmi e i suoi tempi, che devono essere rispettati.
Questo principio pone anche il problema, su cui ci soffermeremo la prossima volta, della società post-industriale, della new economy e anche della globalizzazione, con i vari strumenti che costituiscono l’emblema della società nella quale viviamo oggi.
Dobbiamo fra l’altro ricordare, a proposito di informatica, che gli strumenti non sono mai neutrali, e l’uso di determinati mezzi può far sì che la società si evolva in una certa direzione anziché in un’altra. Si ha un bel dire, da parte di alcuni, che gli strumenti sono neutri, ma quando tutti usano l’automobile la società cambia, evidentemente. Certo sappiamo tutti che la televisione può trasmettere anche immagini buone (chi lo nega!), ma se lo strumento in teoria è neutro, nella pratica sappiamo che le cose vanno in maniera diversa. Un po’ perché l’uso stesso dello strumento condiziona chi lo utilizza, un po’ perché in una società che è fortemente scristianizzata l’utilizzo di determinati strumenti particolarmente penetranti finirà per favorire la maggioranza dei non-cristiani. Bisogna stabilire sempre un rapporto con le situazioni di fatto nelle quali ci si trova: voglio dire che in una società cristiana il perfezionamento di certe tecniche può essere auspicabile, mentre in una società non cristiana l’auspicio non può che essere di segno opposto. Se nell’URSS di Stalin ci fossero stati dei perfezionamenti degli strumenti di tortura o delle armi in dotazione alla polizia, certamente i cristiani in Urss non avrebbero avuto ragione di esultare per questi progressi tecnici. Certo che se la polizia si rafforza in uno stato cristiano (parlo ovviamente degli strumenti normali che possono utilizzare le forze dell’ordine) allora la cosa ci può anche far piacere, però utilizzando questo parametro e tenendo conto che viviamo in un mondo assai poco cristiano, è logico che tutto quanto permette una maggiore efficienza, una maggiore penetrazione, costituisce un’arma che può essere più facilmente usata da chi ha interesse a diffondere nel mondo idee configgenti con il cristianesimo . E non solo con il cristianesimo ma anche, e soprattutto, con l’ordine naturale. Su tale base dovrebbero ragionare in maniera corretta non solo i cristiani ma anche coloro che conservano un po’ di buon senso e hanno a cuore un retto sviluppo dell’umanità e un giusto percorso di progresso.
Vi dicevo, a proposito di economia, che il fallimento, l’implosione dello stato comunista, ha avuto indubbiamente un aspetto macroscopico di natura economica, anche se non possiamo dimenticare che l’economia si ricollega, in ultima analisi, alla visione del mondo, di cui è un frutto, di cui è un risultato: resta tuttavia indubbiamente l’aspetto che più colpisce l’osservatore esterno.
Occorre poi sempre tener presente che se l’Unione Sovietica si è sgretolata, se il muro di Berlino è caduto, ciò non è avvenuto perché i marines sono arrivati sulla Piazza Rossa, anche se spesso, oggi, si tende a non considerare questo aspetto.
Se ad esempio il fascismo e il nazionalsocialismo sono crollati (a parte i giudizi di merito che si possono dare su questi due regimi), ciò è avvenuto essenzialmente perché c’è stata una guerra con la conseguente sconfitta militare della Germania e dell’Italia. Ma l’URSS non è stata sconfitta militarmente: i sovietici nel 1990 avevano un potenziale bellico terrificante e l’Armata Rossa disponeva di risorse militari imponenti, inferiori, forse (non tutti sono d’accordo) soltanto a quelle degli Stati Uniti. Era quindi uno stato armato fino ai denti, in grado di difendersi benissimo dagli attacchi esterni. Però a un certo punto c’è questa implosione, c’è questo sgretolamento, c’è questo crollo che avviene soprattutto dall’interno. E l’aspetto più evidente, come già detto. è certamente di natura economica ed è quello che più ha colpito gli osservatori disattenti. Disattenti se si fermano solo all’aspetto esteriore, perché poi andando a scavare un pochino si capisce come questi aspetti economici rimandino a quello che è il problema di fondo e cioè alla concezione dell’uomo, all’utopia che si è voluta realizzare a tutti i costi.
Ma per scendere nel concreto, vediamo di fare qualche esempio pratico.
A Berlino Est, prima che crollasse il muro, si era sviluppata una qualche forma di modesto turismo (molto modesto, ma reale) e le autorità governative avevano pensato bene di attivare alcuni chioschi che dovevano vendere gelati sia ai berlinesi dell’Est che al personale delle ambasciate o ai turisti i quali si avventuravano oltre il muro. Pur trattandosi di un fenomeno di scarso rilievo, si pensò tuttavia di avviare questo esperimento, che fallì miseramente. Fallì perché nei quattro o cinque chioschi che erano stati realizzati dallo stato, vi erano dei dipendenti pubblici ai quali veniva fornito un certo quantitativo di gelato, contenuto in piccoli bidoni che dovevano essere svuotati per confezionare i gelati da passeggio. . Ovviamente capitava che non appena qualcuno di questi dipendenti pubblici aveva svuotato i “bidoncini”, si guardava bene dal richiederne altri (sempre che potesse trovare qualcuno in grado di rifornirlo) e si fregava le mani perché a quel punto aveva finito la giornata. Mancava cioè qualsiasi incentivo a produrre di più; mancava qualsiasi stimolo a “darsi da fare”. Nell’Unione Sovietica un ministro dell’agricoltura, all’inizio degli anni Ottanta – se non ricordo male — denunciò agli organi direttivi del PCUS che la quantità di prodotti agricoli coltivati nei piccoli appezzamenti riservati alle famiglie superava la produzione complessiva dei kolchoz e dei sovchoz (per chi non lo sapesse: nell’Unione Sovietica c’erano delle fattorie collettive chiamate kolchoz e sovchoz: le prime erano cooperative agricole collettive, le seconde risultavano totalmente statalizzate, ma entrambe dipendevano comunque dalle autorità governative). Ai contadini veniva lasciato un piccolo appezzamento per le necessità familiari: ebbene in questi piccoli appezzamenti si produceva di tutto in maniera fiorentissima mentre il risultato complessivo di questi kolchoz e sovchoz era disastroso. Perché? Anche in questo caso la risposta a noi appare ovvia. È chiaro che se io devo coltivare un pezzetto di terra per le necessità mie e della mia famiglia, mi impegno a fondo; se devo produrre per lo stato il discorso cambia. Quando poi questo stato si incarna in un partito-tiranno come in Unione Sovietica, o, se vogliamo, in una casta di burocrati che hanno poi la dacia sul Mar Nero e stanno abbastanza bene, è evidente che la voglia del contadino di lavorare, non solo per lo stato in generale — il che sarebbe già difficile — ma addirittura per gente che se la spassa sulla pelle di chi è costretto alla coabitazione e vive in maniera spesso miserabile, tende a diminuire in maniera verticale.
Tutto questo che cosa ci insegna? Ci insegna che l’essere umano se non ha un incentivo a produrre, tende a non produrre. Tende in generale, intendiamoci! Anche in uno stato che non avesse le caratteristiche odiose dell’URSS, penso che la situazione non cambierebbe di molto. Io posso dire che ho la massima ammirazione per i santi e gli eroi, ma i santi e gli eroi statisticamente sono una minoranza. Quand’anche ci fossero persone disposte a sacrificarsi per la collettività, senza incentivi, statisticamente — su cento persone — quante ne troveremmo? Abbastanza poche! Ecco perché mi sembra importantissimo il richiamo di Pio XI all’indole umana e a quelle che sono le caratteristiche naturale dell’essere umano. Anche in Unione Sovietica c’era qualche “stakanovista”(termine che deriva da un russo di nome Stakanov, che per il partito era disposto a lavorare come un pazzo e veniva additato a modello): però nonostante Stakanov e qualche raro emulo di questo eroe della Unione Sovietica — che alla fine aveva smesso di lavorare perché lo portavano sempre in giro e lo esibivano alle feste di partito, esponendolo fra l’altro all’odio dei connazionali — non c’erano molti cittadini dell’URSS disposti a sacrificarsi per il partito e per lo stato. Questa è la realtà, non c’è niente da fare: anche con i migliori sentimenti non si produce. Si fa di più per ciò che riguarda noi e la nostra famiglia che non per quello che riguarda la collettività, anche la migliore collettività. In generale è così, poi ci sono le eccezioni, ma le eccezioni sono sempre quelle che confermano la regola, come abbiamo affermato in premessa. E non c’è da scandalizzarsi: la natura umana è fatta in questo modo. E d’altronde i nostri genitori, per non parlare di noi stessi, per chi si sono dati da fare, per chi si sono sacrificati, innanzitutto? Per la propria famiglia! Un genitore perché lavora, perché suda, perché fatica, perché si “rimbocca le maniche”? Per aumentare il benessere, per far migliorare la situazione della propria famiglia, innanzitutto. Poi certamente — secondo una ben precisa scala gerarchica — egli desidererà — anche nel suo interesse — il progresso del quartiere in cui vive, della città in cui opera, della sua patria e del mondo intero. Ma innanzitutto ci si impegna, si suda e si fatica per questo obiettivo: ottenere un miglioramento delle condizioni proprie e della propria famiglia. C’è da scandalizzarsi di questo? Certamente no: è nell’indole umana cercare innanzitutto questo fine. Perché l’uomo lavora? Perché porta a casa lo stipendio? Per soddisfare le necessità primarie sue e della sua famiglia. Poi c’è anche il resto, ma viene dopo, secondo una scala che è propria dell’ordine naturale.
Facciamo un paragone. Passiamo da Berlino Est all’Emilia Romagna. C’è un gelataio, ad esempio, che in giugno a Bologna — ai giardini Margherita — rimane senza gelato. Questo gelataio, lungi dal fregarsi le mani perché è rimasto senza gelato cercherà quanto prima di approvvigionarsi di nuovi prodotti . Perché? Perché c’è la gente che vuole il gelato e lui sta finendo i propri prodotti. . . e di guadagnare. Questo gelataio vuole soddisfare le richieste per venire incontro al bene pubblico, per le necessità della collettività, per il vantaggio della cittadinanza? No. Il primo fine per cui questo gelataio vuole vendere più gelati è legato ai suoi introiti di natura economica. Vuole vendere di più per guadagnare di più, in parole povere. C’è qualcosa di male in questo? No. Non c’è qualcosa di male, anche se sono necessarie delle regole.
Esiste come voi ben sapete la concorrenza. Supponiamo che il nostro gelataio ad un certo punto ottenga degli introiti soddisfacenti. È chiaro che se agisse in condizioni di monopolio e fosse l’unico gelataio potrebbe essere tentato dall’idea di alzare i prezzi e diminuire la qualità dei prodotti, tanto c’è solo lui per cui, alla fine, se uno vuole il gelato si deve accontentare dei prodotti che quel chiosco offre. È ovvio che se sorge un altro chiosco, di un altro gelataio che gli fa concorrenza, c’è un vantaggio per la collettività che potrà scegliere. Si verificherà inoltre un calmieramento dei prezzi, perché ovviamente se un imprenditore deve tener conto anche dei prezzi di un altro operatore economico, non può più fare quello che gli pare. Se poi c’è anche un terzo gelataio, tanto di guadagnato: più c’è competizione e più noi consumatori siamo tutelati, a condizione naturalmente che si tratti di una libera concorrenza, perché qual è il problema principale di questo tipo di modello che possiamo chiamare sbrigativamente capitalistico? È che la concorrenza non sia più libera. A quel punto le regole del mercato potrebbero venire infrante a danno di tutti, perché non bisogna mai dimenticare che la mancanza di regole poi determina la massima libertà, che non è più libertà, ma licenza che determina la fine della libertà stessa. Cioè, se non ci sono le regole e vige la “legge della jungla” alla fine si afferma il più forte, il quale “fa fuori” i concorrenti e alla fine rimane l’unico monopolista. E quindi c’è un problema di regolamentazione del mercato di cui parla anche Pio XI quando fa riferimento ai trust, ai cartelli, alle concentrazioni (con accenti sorprendentemente moderni) di imprese, che fanno venir meno quello che è lo spirito accettabile e positivo della iniziativa economica. Ad esempio, sempre nella “Quadragesimo Anno”, parlando del capitalismo industriale, Pio XI condanna non solo la concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi di una potenza enorme (“dispotica padronanza”) in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale (frasi quanto mai attuali), di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento (se pensiamo ai vari Colanino e soci abbiamo una traduzione moderna di queste parole). Ed infine, come logica conseguenza, Pio XI denuncia che alla libertà del mercato è sottentrata l’”egemonia economica”.
Una libertà senza regole, infatti, non è più una libertà. È abbastanza evidente che, nel regno della licenza, finirebbe per imporsi la legge del più forte. E allora ogni discorso sarebbe finito. Proviamo ad immaginare, sempre per restare nel concreto, un paese di cui ci sia un solo forno (passiamo dai gelati ai forni); è chiaro che il fornaio del nostro esempio può anche non avere a cuore il miglioramento della sua produzione e l’onesto rapporto tra prodotti e prezzi, perché tanto c’è solo lui. È chiaro altresì che nel momento in cui comparissero sul mercato un secondo o un terzo fornaio, si verificherebbe quel benefico effetto della libera concorrenza di cui abbiamo parlato. Però supponiamo che uno dei tre decida di eliminare la concorrenza. Ci sono tanti modi; adesso non parlo dei metodi che potrebbero essere suggeriti dalla lettura de “Il Padrino” (esistono anche quelli, ma restiamo in campo economico). Supponiamo che uno di questi tre fornai abbia alle spalle un patrimonio familiare colossale. Cosa potrebbe fare costui? Potrebbe decidere di vendere il pane ad un quarto del prezzo al quale lo vendono gli altri, quasi regalandolo. Ovviamente il consumatore, in simili situazioni, che cosa fa? Punta alla propria utilità, perché non può certo farsi carico dei problemi della libera concorrenza! Se trova uno che gli vende del buon pane a un prezzo ridottissimo, andrà a comprarlo lì. Epilogo: gli altri due fornai, che operano normalmente sul mercato, a un certo punto si trovano il negozio vuoto, perché nessuno andrà più a comperare il pane. A un certo punto, quindi, non avranno più introiti. Se hanno dei dipendenti dovranno licenziarli e poi arriverà il momento in cui dovranno “chiudere baracca”. Morale: il fornaio che ha venduto il pane ad un “prezzo predatorio” rimane solo sul campo. Utilizzando semplicemente la leva economica ha espulso gli altri due concorrenti. Come voi capite, questo tipo di libertà (se di libertà si tratta) non è moralmente accettabile. In questo modo, infatti, alla reale libertà di mercato si è sostituita l’egemonia economica, che è l’antitesi della vera libertà.
Pensiamo anche a una partita di calcio. Se non ci fosse un regolamento, se ognuno fosse libero di giocare utilizzando gomitate, calci e pugni, alla fine non vincerebbe il più bravo, vincerebbe il più violento, il più robusto, il più forte fisicamente. Pensiamo a che cosa sarebbe la circolazione nelle strade se non ci fosse il codice della strada: già adesso è pericoloso molte volte girare, ma se poi non ci fosse il codice della strada, se ognuno fosse libero di circolare a suo arbitrio, a sua discrezione, ad libitum, che cosa succederebbe? Incidenti di tutti i tipi, risse, e poi alla fine avremo gente che per avere la sicurezza di prevalere su tutti gli altri circolerebbe su un autoblindo, su un carro armato, così anche in occasione di un eventuale scontro potrebbe pensare ragionevolmente di avere la meglio o di difendersi.
Quindi c’è questa necessità di avere delle regole, di difendersi cioè da coloro che possono tentare, come è fatale che accada, di alterare la concorrenza. Anche qua il richiamo all’indole umana è quanto mai opportuno, perché è inutile pensare, come Adam Smith, che ci sia la mano invisibile che regola il mercato: la mano invisibile diventa ad un certo punto una “manona” che si appropria del mercato e la libertà, a quel punto, è finita. Quindi è necessario che lo stato detti delle regole, anche se poi in una situazione come quella italiana le varie authority sono gestite in maniera molto criticabile . Il fatto che esista una authority“anti-trust” o una legislazione “anti-trust” è un dato positivo, nel senso che è giusto vi sia una legislazione anticoncentrazionistica, come è giusto che ci sia un’autorità indipendente preposta a combattere i “cartelli”, a condizione ovviamente che l’authority faccia il suo dovere, lo faccia in maniera pienamente obiettiva e a condizione che la normativa sia correttamente ispirata ed imparzialmente applicata. Pio XI fa un esplicito riferimento all’intervento dello stato e dice giustamente che esso “deve regolare la vita economica” ma facendo l’arbitro, non scendendo in campo come è accaduto in Italia: un arbitro che scende in campo cessa infatti di essere imparziale.
Il citato Pontefice, nella “Quadragesimo anno” — enciclica per molti versi sorprendentemente attuale — prosegue affermando: “A ciò si aggiungono i danni gravissimi che sgorgano dalla deplorevole confusione delle ingerenze e servizi propri dell’autorità pubblica con quelli della economia stessa: quale, per citarne uno solo tra i più importanti, l’abbassarsi della dignità dello Stato, che si fa servo e docile strumento delle passioni e ambizioni umane”. Quindi è giusto che sia lo stato a fissare delle regole, ma quando le regole sono fissate lo stato deve fare l’arbitro, mentre in Italia abbiamo assistito anche a uno stato che produceva i panettoni e faceva concorrenza alle imprese, con risultati disastrosi.
Una la ricordo personalmente, perché sono gli aspetti concreti quelli che rimangono più impressi. Una certa società che si occupava di turismo (assai malgestita) aveva come azionista di maggioranza (98%) un ente pubblico . Ebbene, ogni volta che “andava in rosso”, interveniva l’ente pubblico — con i nostri soldi — a ripianare i debiti della società stessa. Ricordo che lavoravo in una azienda di Bologna la quale organizzava ogni anno dei viaggi premio per gli agenti di commercio che riuscivano ad eccellere e a vendere più prodotti rispetto agli altri. C’erano varie classifiche: chi vendeva più l’articolo X, chi era più bravo nel vendere il prodotto Y e così via. Si organizzavano dunque, per i migliori, viaggi in Grecia, in Portogallo, in Gran Bretagna… Ovviamente che cosa faceva l’azienda per cui lavoravo: chiedeva dei preventivi alle agenzie che operavano nel settore turistico per scegliere poi l’offerta più conveniente. Dato che i costi li sosteneva l’azienda, se per andare in Grecia a parità di condizioni un’agenzia offriva un preventivo più vantaggioso, si sceglieva quella in luogo dell’agenzia concorrente. Per alcuni anni è accaduto questo: c’erano varie agenzie private che si arrabattavano, limavano di qua e di là per offrire un preventivo che potesse essere appetibile, poi arrivava il direttore della società citata che si limitava a presentare un’offerta inferiore del 5 o 6 per cento. Non c’era infatti il problema di restare sul mercato: se anche la società fosse andata “in rosso”, sarebbe comunque intervenuto l’ente pubblico a ripianare il debito!
Questo è un modo inqualificabile di intervenire sul mercato, perché così si droga e si distrugge la libera concorrenza, e poi, oltretutto il costo è a carico dei contribuenti.
Quindi possiamo dire, traendo qualche conclusione dagli esempi che ho illustrato, che il problema principale dei paesi comunisti e dell’economia di tipo collettivistico consiste nell’incapacità di produrre: cioè, quand’anche l’utopia comunista avesse dal punto di vista della distribuzione delle ricchezze una proposta accettabile, il che non è (ma diamo per scontato che la proposta di distribuzione delle ricchezze sia accettabile, sia condivisibile), il problema, che sembra perfino banale, di queste società, è che non c’è la produzione delle ricchezze! Uno dei motivi del crollo, dell’implosione dei regimi comunisti è stato questo: a un certo punto non riuscivano più ad autoalimentarsi. Quando un partito comunista in passato è riuscito ad impadronirsi del potere, ha trovato per così dire in magazzino un po’ di roba. Finché la roba che c’era in magazzino poteva essere distribuita, c’era la possibilità di tirare avanti, ma poi, esaurite le scorte di chi aveva prodotto prima, c’era la necessità di produrre in proprio. Da questo punto di vista, secondo molti economisti — ad esempio — la seconda guerra mondiale è stata per l’URSS Sovietica una occasione incredibile, perché con tutti i finanziamenti ricevuti dagli americani i sovietici han campato per decenni. Per non parlare poi degli acquisti di grano a prezzi agevolati: se non ci fossero state queste continue iniezioni da parte dell’Occidente, l’Unione Sovietica avrebbe fatto “flop” molto, ma molto prima. In ogni modo, come si è detto, il problema principale dei sistemi comunisti è quello che non riescono a produrre; non incentivando l’essere umano a darsi da fare, a realizzare, a un certo punto il risultato è che non si produce più, e manca la torta da suddividere. Per cui quand’anche un regime di questo tipo avesse delle idee eccezionali sul modo di distribuire la torta, quand’anche riuscisse a convincerci che in effetti quel tipo di distribuzione è meraviglioso, il problema fondamentale sarebbe costituito dalla mancanza della torta! Piccolo ma non trascurabile problema… Ovvero: che cosa distribuiamo, se non abbiamo prodotto? Ora il problema dell’economia capitalistica, dell’economia che si basa sulla iniziativa privata, è diverso e riguarda la distribuzione: occorre evitare che tutta la torta finisca nelle mani di una sola persona, o che ci siano solo tre fette che vadano in mano a tre sole persone. Però c’è già un grande vantaggio, perché la torta almeno esiste! Una volta che la torta è stata realizzata, si può discutere se poi deve essere divisa in un modo o in un altro, ma quando la torta non c’è non si pone nemmeno il problema della distribuzione.
A volte mi sembra di fare delle affermazioni semplici, quasi banali, ma spesso — lo ricordo, innanzitutto a me stesso — la verità è semplice, a volte addirittura banale. Certo che se uno fa come Bertinotti, che a Livorno, nell’ottantesimo anniversario della fondazione del partito comunista, ha affermato che bisogna tornare a Marx e alla lotta di classe, la conclusione è evidente. Partendo da quelle premesse non si potrà infatti che arrivare anche a risultati disastrosi. Se uno si mette due fette di prosciutto davanti agli occhi e cerca comunque di interpretare la realtà, c’è poco da fare. Il motivo principale per cui dal punto di vista economico c’è stato il fallimento dei regimi comunisti — lo ripeto — è il seguente: non si produceva più; la torta da distribuire non c’era. E voi capite che quando manca la torta da suddividere, tutte le disquisizioni filosofiche e dottrinali sulle modalità di distribuzione della torta medesima perdono di significato, mentre non perdono di significato nell’Occidente, perché qui la torta c’è. Qui il problema è di tipo diverso: il problema è nel rispetto dell’indole umana, nel rispetto di quelle che sono le tendenze dell’essere umano, nel cercare di far sì che vi siano delle regole che garantiscano una effettiva libera concorrenza. Immaginiamo una partita di calcio: in essa le regole non hanno certo la funzione di limitare la bravura e la capacità dei giocatori. Al contrario, esse hanno il fine di permettere ai giocatori di esprimere il meglio di se stessi senza trovare qualcuno che rompa un ginocchio all’avversario impedendogli di sfoderare la sua classe. Questa è la funzione delle regole in una società bene ordinata: se voi ci pensate, è un discorso che si fonda su ragionamenti che partono da una visione naturale, normale delle cose, carica di buon senso. In fondo, se ci sono tre fornai, il vantaggio è di tutto il paese perché ognuno può scegliere se andare nel forno A, nel forno B o nel forno C: quindi evitare che ci sia la possibilità di espellere dal mercato delle imprese che vanno bene e che rendono un servizio alla collettività è importantissimo, anche a livello internazionale. Ad esempio, per un certo periodo di tempo i giapponesi hanno usato questo sistema distruggendo alcune valide aziende. Una grande multinazionale nipponica poteva fare questo ragionamento: adesso noi entriamo nel mercato delle motociclette del paese X. Bene: per due, tre, quattro anni pratichiamo dei prezzi fuori mercato, lavoriamo in perdita. Però, se lavorando in perdita buttiamo fuori dal mercato le aziende concorrenti, alla fine rimaniamo solo noi padroni del campo.
Saggiamente poi la Chiesa si limita a dettare dei principi in campo economico, perché le regole vanno attuate in maniera diversa a seconda della condizioni storiche di ciascun paese. Un conto è applicare le regole in Italia, un conto è applicarle in Irlanda o in Cina: è chiaro che bisogna tener conto delle variabili locali. Occorre invece affermare con forza che il capitalismo selvaggio non ha proprio niente a che vedere con la concezione cristiana del mondo. Altro è la libera concorrenza, altro è credere che il mercato da solo possa risolvere tutto, perché in realtà non è così. Attualmente assistiamo ad una fase quasi di divinizzazione del mercato: ricordo che quando c’era il governo Berlusconi, D’Alema diceva: “i mercati hanno reagito male”, quasi che quando si compie una certa scelta gli arbitri siano “i mercati”. In America c’è stato un bambino il quale, in un tema che conteneva una domanda così formulata: “che cosa vorresti essere?”, aveva scritto: “vorrei essere il mercato”. Sembra che il professore abbia chiesto a questo bambino: “ma perché hai scritto: vorrei essere il mercato?” e la risposta è stata: “perché ho sentito alla televisione che il mercato può fare tutto”. A suo modo aveva colto un aspetto veritiero di quella che è la situazione, perché se “tutto dipende dai mercati” si vede che questi mercati sono veramente importanti, sono onnipotenti.
Per concludere il ragionamento, possiamo dire che in uno stato moderno il problema delle regole è essenziale, senza peraltro dimenticare che esistono dei modelli a cui possiamo guardare. Ogni tanto infatti c’è qualcuno che dice: “ma una società, un modello di società concreto a cui potersi ispirare non c’è mai stato: qui si fanno delle grandi chiacchiere”. Ebbene, sempre facendo riferimento a Pio XI, non possiamo non ricordare che nella “Quadragesimo anno” il pontefice dice: “Vi fu un tempo in cui vigeva un ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione, secondo le condizioni e la necessità dei tempi”. Il riferimento è chiaramente alla cristianità medioevale. E anche qua, proprio facendo riferimento a questa società, che è esistita (non è frutto della fantasia di qualche autore dell’epoca della Controriforma), occorre anche pensare a quel potente correttivo che è la leva fiscale, che può dare grandi e positivi frutti se usata in un certo modo, mentre può invece rivelarsi strumento di rapina da parte dello stato e di chi occupa i vertici di potere nello stato se usato malamente. Infatti diciamo che in una economia nella quale viene giustamente favorita l’iniziativa privata, occorre tener conto anche delle esigenze dei più deboli, come ci ha giustamente ricordato in epoca recentissima da Giovanni Paolo II – nel discorso da me già citato — che così si è espresso riguardo alla liceità del guadagno: “Quel che intendo dire è che per essere giusto il profitto deve essere sottoposto a criteri morali, in particolare a quelli connessi con il principio di solidarietà”. Quindi: che la gente produca, però ci devono essere delle regole. Ad esempio, in uno stato rettamente ordinato, qual è il principio primo, qual è il fine primo a cui deve mirare l’utilizzo della leva fiscale? Evidentemente si deve pensare all’utilizzo del denaro pagato dai cittadini a titolo di imposte e tasse per venire incontro a chi ha più necessità di essere aiutato. Ora voi vedete come facendo riferimento proprio all’indole umana, a quella che è la caratteristica dell’essere umano, si possono conciliare questi aspetti; voglio dire: se Tizio guadagna, è giusto che lo stato lo incentivi a guadagnare e gli consenta di operare per realizzare un profitto, perché quel profitto diventa poi una fonte di bene per tutti. Perché? Perché se costui realizza un profitto, mantiene innanzi tutto se stesso e la famiglia. Poi, se ha la necessità di assumere dei dipendenti, darà del lavoro ad altri; infine, pagando le imposte, consentirà allo stato di provvedere alle necessità generali (la difesa, l’ordine pubblico e gli altri aspetti essenziali per la collettività). Non solo. Le somme pagate a titolo di imposte serviranno anche per la redistribuzione del reddito a favore di chi ha meno. È palmare quindi che se lo stato utilizza la leva fiscale, toglie una parte del profitto a chi lo realizza, ma ha poi la possibilità di utilizzare quella parte di profitto a favore dei meno abbienti, a favore di chi ha veramente necessità, a vantaggio di quella parte debole della società che non riesce a tenere il passo con i ritmi dell’iniziativa economica. In questo modo, da un lato lo stato incentiva chi ha voglia di darsi da fare ad operare proficuamente, d’altro canto utilizza il gettito fiscale a favore di chi ha effettivamente bisogno. È evidente che nella società ci sono anche gli strati deboli, c’è anche, faccio per dire, il cieco, c’è l’invalido, c’è tutta una serie di persone che non sono in grado di produrre, di realizzare del profitto; ma è grazie al profitto di chi intraprende che si può sovvenire alle necessità di chi è indigente senza che lo stato vada a indebitarsi. Quindi vedete come in un retto ordinamento i conti possano effettivamente tornare.
Certo, qual è il problema principale dal punto di vista fiscale? Il problema è trovare una misura che consenta (per usare le parole di un leader socialdemocratico svedese, Olov Palme, che tuttavia poi commise vari errori dopo avere enunciato questa sua teroria) di tosare la pecora senza ucciderla: perchè se uno affonda troppo il rasoio, anziché prendere la lana della pecora fa sì che l’animale muoia e morendo non produca più lana. Poi anche Palme esagerò, tant’è che molti svedesi si lamentarono della eccessiva fiscalità del loro paese; però il principio in sé ha una sua validità. Che cosa succede infatti se noi carichiamo troppo un asino?Il quadrupede a un certo punto tenta di scrollarsi di dosso il carico: è normale. Se noi andiamo a vedere anche la storia delle nazioni e pensiamo a come sono nati gli Stati Uniti d’America, vediamo che c’è stata una ribellione che aveva alla sua origine alcune forme di tassazione che gli americani, allora coloni inglesi, reputavano ingiuste. Venendo a noi, si dice spesso: “Ah! Gli Italiani, non vogliono pagare le tasse…”. Nessuno arde di entusiasmo perché deve pagare le tasse. Però c’è una linea ideale fino alla quale noi tutti accettiamo di compiere il nostro dovere; cioè finché avvertiamo che una certa tassazione è accettabile e tutto sommato equa, paghiamo: è quando la avvertiamo come iniqua che ci viene quanto meno il desiderio di non pagare. Qui siamo arrivati al punto che l’ultimo comandante generale della Guardia di Finanza, generale Rolando Mosca Moschini — così si chiama – in un discorso tenuto all’Accademia della Guardia di Finanza, ha rilevato (e se lo ha rilevato lui penso che dobbiamo credergli) che buona parte dell’evasione è dovuta al fatto che ci sono delle imposte esagerate. Quando uno pensa che di un certo guadagno deve darne metà allo stato e che poi ci sono altre tasse da pagare (oltre alle imposte), per cui si può arrivare ad un guadagno netto del solo trenta per cento, è chiaro che viene voglia di non pagare.
Ora, vi dicevo, la leva fiscale è importante ma per essere legittima deve rispondere a criteri di equità e di moralità. C’è un vecchio film in cui Totò, che ha un negozio a Roma, ogni tanto va nel retrobottega e accende un lume dinanzi all’immagine di sant’Agostino, perché aveva scoperto che il santo di Ippona, in una sua opera, aveva scritto che quando le tasse sono eccessive il cittadino ha diritto di non pagarle. Totò dava un fondamento morale alla sua evasione fiscale e invocava sant’Agostino perché lo proteggesse e gli evitasse di essere scoperto dalla Guardia di Finanza…
Al di là di questo riferimento, la frase di sant’Agostino è giustissima. Voglio dire: anche nella tassazione ci dev’essere un limite, perchè nel momento in cui uno si sente rapinato, cerca semplicemente (certat de damno vitando) di salvaguardare quel po’ che è riuscito ad ottenere con la sua fatica e con il suo sudore. Tuttavia anche in questo campo vediamo come regole inappropriate, non finalizzate all’ottenimento del bene comune, possano effettivamente creare problemi dal punto di vista economico. In passato abbiamo avuto delle persone che hanno smesso di produrre, hanno cessato di lavorare perché non potendo evadere, a un certo punto hanno detto: “se io devo dare il settanta per cento allo stato, chi me lo fa fare, di lavorare e di sudare; mi godo quello che ho già guadagnato e buonanotte”. Oppure gente che diceva (quando i BOT avevano certi rendimenti): “Perché devo avviare una attività imprenditoriale andando a cercare rogne di tutti i tipi con la Finanza, con i sindacati… io investo, mi assicuro una rendita finanziaria, e chi s’è visto s’è visto”. Voi capite quanto questa logica sia deleteria, perché non produce nulla di buono, mentre una persona che vuole intraprendere, retta da sano spirito imprenditoriale, è una persona che innanzitutto rischia, e rischia del proprio. Oltre a questo poi, se realizza del profitto, darà da lavorare ad altre persone, quindi assicurerà non solo il benessere suo e della sua famiglia, ma anche di altri soggetti. E poi, attenzione, pagando le imposte, aiuterà anche i meno abbienti:anche questa è una forma di carità sociale da tenere presente.
Giunti alla conclusione della serata io spero, sia pure sommariamente e partendo da aspetti molto concreti, di avere delineato quali sono i problemi che rendono inattuabile dal punto di vista economico il progetto socialcomunista, destinato a sicuro fallimento, e quali sono invece i problemi della società di tipo capitalistico, che, certo, produce la torta, ma ha dei grossi problemi nel momento in cui si tratta di determinare le modalità di distribuzione della torta stessa. Ecco quindi la necessità di un corretto intervento dello stato che, dettando delle regole per evitare che il fornaio A possa far fuori economicamente il fornaio B e il fornaio C, quindi imponendo norme atte a salvaguardare la libera concorrenza, può impedire l’affermarsi di egemonie economiche che non producono nulla di buono, anche perché poi spesso l’egemonia economica tende a tradursi in egemonia sociale e politica: chi ha il potere economico in mano riesce a condizionare le scelte politiche e quindi, da una eccessiva libertà malamente intesa, si può arrivare alla tirannide. Laddove c’è una libertà (che non è libertà) priva di regole, che cosa succede? Che il più forte si impone, e dopo che si è imposto dal punto di vista economico, avendo in mano il potere finanziario può anche imporsi dal punto di vista sociale e dal punto di vista politico. Quindi il bel risultato di questa libertà eccessiva, che degenera in licenza, è la tirannia. Ecco perché le regole sono veramente importanti. Da ciò l’importanza delle norme e di un corretto uso della fiscalità, che non soffocando il desiderio di intraprendere e il desiderio di guadagnare (connaturati all’indole umana), consentano allo stato di operare in maniera equilibrata.
È innaturale che l’essere umano non desideri di migliorare la propria posizione e guadagnare di più; e non bisogna vergognarsi quando si può (non è semplice, ovviamente) realizzare onestamente un maggior profitto, un più consistente guadagno. A quel punto però bisogna anche tener presente che siccome si vive in una società, siccome ci sono dei princìpi di solidarietà da rispettare, è importante che lo stato, in particolare uno stato che voglia dirsi cristiano, faccia un buon uso della leva fiscale, perché se si riuscisse ad impostare uno stato secondo questi fondamenti penso che si potrebbe vivere abbastanza bene, sempre tenendo presente anche quello che diceva Pio XI, quando faceva presente che un tempo si realizzò un ordinamento sociale il quale, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione, secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Qui non è il caso di immaginare stati perfetti che appartengono anch’essi al regno dell’utopia: però uno stato che segue le indicazioni e si uniforma a quelli che sono i principi della retta ragione per realizzare il bene comune, è indubbiamente uno stato che, scartando le utopie collettivistiche, apprezzando il desiderio dell’essere umano di intraprendere iniziative volte al miglioramento della propria situazione personale e familiare, dettando leggi che regolano opportunamente la concorrenza e facendo un saggio uso della leva fiscale, può far sì che effettivamente chi ha voglia di guadagnare si dia da fare e guadagni, utilizzando poi parte di quel guadagno, per sovvenire alle necessità di coloro che hanno bisogno di essere aiutati.
Ecco, direi che il modello occidentale, con questi correttivi, può inserirsi nella visione che i pontefici hanno indicato e che tiene conto soprattutto dell’indole umana, la quale ha uno stretto legame con la dimensione economica della vita sociale.
Per questa sera concluderei, la prossima volta poi approfondiremo il percorso vedendo anche quali sono gli aspetti, in campo economico, della rivoluzione protestante e della rivoluzione francese e della rivoluzione comunista.
Mi scuso se nelle premesse mi sono un po’ dilungato, ma penso che certi esempi possano essere stati utili alla comprensione del discorso e per capire come si arriva al Novecento, ricollegandomi alla lezione di Plinio Corrêa de Oliveira.
Voi sapete che Plinio Corrêa de Oliveira individua quattro grandi fasi del processo rivoluzionario: abbiamo la Prima Rivoluzione, che è quella della riforma protestante, la Seconda Rivoluzione che è quella francese, la Terza Rivoluzione che è quella sovietica, poi abbiamo la Quarta Rivoluzione, tipica della nostra società.
Ogni rivoluzione ha anche degli aspetti, delle conseguenze di natura economica che sono assai interessanti per la comprensione del fenomeno. Ad esempio, a proposito di capitalismo, una grande importanza in un certo tipo di sviluppo(quello che a noi non piace del capitalismo), l’ha avuta senz’altro il calvinismo, circa il quale si può leggere, in un manuale attualmente in uso nelle nostre università (Storia 1200-1650, di A. GIARDINA, G. SABBATUCCI; V. VIDOTTO, Edizioni Laterza, 1995) il seguente giudizio:
“Per volontà imperscrutabile di Dio alcuni eletti erano predestinati da sempre alla salvazione. Tutti gli altri erano dannati, secondo Calvino . La salvezza non dipendeva dai meriti dell’individuo, ma dalla grazia divina. L’individuo però non doveva rassegnarsi passivamente al proprio destino, ma ricercare continuamente dentro di sé i segni della sua appartenenza alla schiera degli eletti. Questa ricerca attiva e incessante si attuava anche nella vita di ogni giorno, nella quale l’eletto era chiamato ad impegnarsi: il successo personale, il dovere compiuto, il lavoro ben eseguito, fosse esso quello dell’uomo politico o una occupazione umilissima, erano quasi un rito religioso celebrato in onore di Dio. Per il calvinismo la vocazione di ognuno si legava così in positivo alla predestinazione, dando vita a una nuova etica del lavoro. Per quanto riguarda il denaro, esso doveva essere impiegato, oltre che per il proprio sostentamento e per quello dei poveri, in attività produttive che generassero a loro volta nuovi guadagni; anche negli affari il successo era un segno della predestinazione divina. In un’etica come questa, nella quale trovavano un ruolo eminente anche attività come quella del mercante e del banchiere, e più in generale le attività di chiunque maneggiasse danaro, tramontava veramente l’etica medioevale”. Quindi si ha, con il calvinismo, l’esaltazione non tanto di chi produce, ma soprattutto di chi maneggia denaro senza produrre.
Vi furono poi degli interessanti studi del sociologo tedesco Max Weber, in particolare uno intitolato “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”: in questo saggio, pubblicato per la prima volta nel 1904 Max Weber sostenne che le chiese protestanti e in particolare quella calvinista avevano contribuito a creare una concezione della vita che incoraggiava il risparmio e lo spirito d’impresa. Weber affermava che la nuova etica della Riforma aveva incoraggiato ulteriori sviluppi del capitalismo, perché coloro che credevano in essa pensavano che l’accumulazione di capitali fosse sanzionata da un disegno divino. I vecchi scrupoli del Medioevo — modernamente potremmo parlare di regole — verso l’usura e il profitto svanivano così di fronte ad una dottrina che poteva giustificare l’arricchimento con i più alti princìpi morali. Il capitalismo aveva trovato i suoi ideologi. Da allora in poi la borghesia calvinista fu la grande promotrice dell’avanzata capitalistica e i circoli commerciali dell’Inghilterra ed Olanda divennero i suoi alfieri.
Tutto questo mi sembra molto significativo. Dal punto di vista storico è interessante anche vedere come ad esempio proprio in Olanda, a un certo punto c’è chi pubblica un libro intitolato “De usuris“. Prima si dice che, in fondo, l’usura non è poi da condannare… poi cade ogni divieto e nel 1658 il sinodo di Leida disapprova pubblicamente il “pregiudizio” contro l’usura, che successivamente viene praticata senza problemi in Olanda e in Inghilterra. Quindi direi che il saggio di Weber sull’etica protestante e la formazione del capitalismo è quanto mai attuale e che un certo tipo di capitalismo ha ben poco a che vedere con la tradizione cattolica, risultando molto più legato, se mai, alla tradizione calvinista. Come diceva il professor Leonardo Gallotta, non a caso la Ginevra di Calvino ancor oggi abbonda di istituti bancari i quali poi non si fanno scrupoli di sorta… Adesso si parla tanto di “olocausto”:quando si pensa che gli elvetici hanno anche distribuito lezioni di etica e poi si scopre, ad esempio, quel che è accaduto ai soldi depositati in Svizzera dagli ebrei morti ad Auschwitz o a Buchenwald…. Ma si sa: “pecunia non olet” e il segreto bancario è il segreto bancario!
Credo che il discorso del calvinismo sia d’ausilio alla comprensione di molte cose; approfondiremo la questione la prossima volta, per vedere anche come le varie tappe della Rivoluzione presentino anche questo aspetto di natura economica, che aiuta a meglio capire il fenomeno. In fondo, se voi ci pensate, anche l’economia, come il diritto, è un filtro che ci permette di approfondire meglio un determinato periodo storico, una determinata tappa di un certo percorso: ciò vale per il comunismo, per la riforma protestante, per la rivoluzione francese e, come vedremo, per la “quarta rivoluzione”.