n. 39 – aprile 2020
Cari amici,
con questo numero di IN HOC SIGNO Alleanza Cattolica in Ferrara propone alla vostra lettura la seconda parte della lezione della bioeticista dott. Chiara Mantovani «Amministrazione e bioetica: la persona al centro della politica» tenuta al corso SERVIRE LA CITTÀ organizzato dalla Associazione Progetto San Giorgio il 21 gennaio scorso. A causa della emergenza sanitaria sono state soppresse tutte le lezioni successive pubbliche, sostituite ora da video che vengono pubblicati nel nuovissimo canale YouTube del Progetto San Giorgio.
Il Progetto San Giorgio ha messo a disposizione in questo stesso canale i video delle quattro lezioni (compresa quella della dott. Mantovani oggetto di questo invio) svolte all’Urban Center, realizzati da Stefano Sormani dell’agenzia FlixMedia.
La persona al centro della politica (seconda parte)
di Chiara Mantovani
Proseguendo nella lista delle parole da “ripassare”, dal momento che queste riflessioni sono rivolte in modo particolare a chi amministra prendiamo in esame proprio la parola e il concetto di “amministrazione”. Che cosa si am-ministra? Ovvero, di che cosa si è ministri? a che scopo lavorare mettendosi al servizio, cioè diventando ministranti del proprio lavoro e delle proprie competenze? È stato detto: al servizio del bene comune.
Il magistrato Domenico Airoma, nella lezione inaugurale, ci ha spiegato molto bene, articolando diverse definizioni, che cosa è il ‘bene comune’. Una definizione, in particolare, vorrei riprendere ora, in quanto molto approfondita: il bene comune è il complesso delle condizioni che rende agevole il perseguimento della perfezione da parte dei singoli consociati e delle formazioni sociali. Chi c’era si ricorderà, perché è stato un passaggio forte, il suo racconto dell’interrogatorio del capo della cosca mafiosa che ammetteva di aver dovuto far uccidere un suo stesso associato in quanto metteva in pericolo il bene comune della cosca stessa. Terribile, drammaticamente efficace nel trasmettere l’idea di una socialità da difendere. Quell’uomo meritava di morire, a dire del capo clan, poiché ostacolava la perfezione del gruppo con un comportamento non consono alle regole vigenti in quella piccola società.
Il ‘bene comune’ è anche uno ‘stare bene’, ma non può essere esaurito dal benessere di una sola parte. In medicina lo comprendiamo facilmente, in special modo quando ci troviamo dalla parte del paziente: se il medico si occupa solo della nostra congiuntivite, o del nostro fegato, o della nostra unghia incarnita, ma non si pre-occupa (si occupa innanzitutto) di come stiamo complessivamente, non ci sentiamo ‘curati’. Ciascuno di noi vuole essere guardato con lo sguardo di chi vede un tutto, e solo successivamente con attenzione alla singola parte che mostra sofferenza, se mai è possibile che in un organismo, sia umano che sociale, una parte dolorante non renda dolorante in qualche modo tutto l’essere e tutta la socialità.
L’apologo di Menenio Agrippa, dopo duemilacinquecento anni, ci insegna ancora qualcosa. Se ci tagliamo un mignolo non è dolorante tutta la mano, anzi tutto il corpo, e quella medicazione non dà fastidio a tutta la mano, e non va ad ostacolare la funzionalità di tutto il corpo? Anche le società umane, ovvero il modo stesso di stare nel mondo dell’uomo, che è un essere definito dalla propria socialità, conoscono perciò la necessità di un ‘bene’ che sia tale per tutti.
Il clima di conflittualità che vediamo nel corpo sociale, la frammentazione, i “coriandoli rancorosi” che non sanno mettersi d’accordo, sono la conseguenza della perdita di un fattore decisivo e indispensabile al vivere in comune: la consapevolezza di che cosa è bene, primariamente, e poi di che cosa è il bene di tutti e per tutti.
Ci ricordava Renato Cirelli che il bene comune è garanzia della identità sociale: della storia e della cultura della comunità. È ‘bene comune’ di Ferrara che la cattedrale sia riparata e consolidata dopo il terremoto, anche per un agnostico; è ‘bene comune’ della città di Ferrara che i marciapiedi siano aggiustati, le buche colmate, i semafori funzionanti. Certamente i marciapiedi e le opere di restauro o di funzionalità viaria possono essere fatti bene o male, in modo efficiente o no, ma se non rispettano le caratteristiche reali delle persone possono essere fatti tecnicamente benissimo, ma non essere affatto consoni alle esigenze concrete di chi abita la città.
Forse ricorderete i lavori di rifacimento in tutta la via Bologna, quei bei gradoni alti che impediscono, di fronte ad una necessità — per esempio una ambulanza che debba superare per farsi strada – un passaggio rapido e sicuro. Allora, molti di noi hanno pensato che solo una mentalità che non fa conto del reale, ma ha in mente una ideale città perfetta, può fare dei cordoli di quella altezza. “Ti impedisco di passare dove ho deciso che non devi passare…” è la mentalità di chi non ha a cuore il bene comune delle necessità, ad esempio quelle di un’ambulanza, bensì è più preoccupato di imporre anziché di educare, di chi ha in mente una visione ideologica che non si piega alla realtà delle cose e alle vere necessità delle persone reali, e insegue un’utopia che facilmente si trasforma, alla prova dei fatti, in distopia. Capita allora che si dia più importanza al progetto di una città rigidamente regolamentata, facendo conto più sull’imposizione, piuttosto che sulla dimostrazione della necessità di un comportamento virtuoso.
Il bene comune si esplicita anche in una serie di protezioni concentriche, dei ‘gusci’, che vanno a salvaguardare la singola persona umana. L’essere umano non sa stare e non può stare da solo. Il piccolo di uomo, appena nato, sa solo piangere. Ciascuno di noi ha bisogno di essere protetto. Dall’inizio ha bisogno di un utero, che sta dentro ad una mamma, che ha formato una famiglia, che abita in una casa, che costituisce un rione. E tanti rioni formano una città, che si riconosce in un territorio, che è una regione (geografica ma anche culturale, dove sono sepolto gli avi e si parla la stessa lingua e si cucinano le stesse cose e si cantano le stesse storie…). E le regioni formano una Patria, una Nazione, un continente, un mondo: la Terra. E il Cielo sopra di tutto. La radice del bene comune è piantata in terra e raggiunge il cielo.
Le protezioni che garantiscono il bene del singolo sono tutte plurali e sono quelle modalità di bene che fanno bene a tutti. Ci diceva il magistrato Domenico Airoma che non bisogna sottovalutare le capacità di un Comune, anche di un piccolo Comune, il quale è una struttura protettiva nei confronti della persona. Ci sono molte leggi, nazionali e internazionali, alle quali un Comune deve sottostare, ma ci sono anche molti spazi di libertà per poter agire nell’ottica di proteggere e realizzare il bene di quelle singole concrete persone che abitano quello specifico territorio.
Ma per sapere che cosa è bene per gli uomini, bisogna decidere chi è l’uomo. Può sembrare una questione di alta filosofia, argomento riservato a intellettuali raffinati, che abbia poco a che vedere con la concretezza che ho appena invocato, e invece è una questione decisiva. Potremmo semplificarla dicendo: chi sbaglia antropologia sbaglia sociologia. Chi non accetta, ad esempio, che l’uomo sia una creatura, cioè che non si sia fatto da solo, che non derivi dal ‘caso’ o dalla ‘necessità’, non riesce a concepire una società che sia strutturata in modo che salvaguardi il bene di tutti. Può solo immaginare tanti modi differenti per garantire ora uno ora l’altro dei beni possibili per vari gruppi omogenei. Un esempio classico è quello del comunismo. Dividere gli esseri umani in opposte fazioni in lotta continua tra loro, le classi dei lavoratori e quelle dei padroni; immaginare che la pace sociale si possa ottenere – e temporaneamente – solo attraverso il conflitto, nella dialettica di un superamento obbligatorio di ciò che è bene, giusto, bello [“le magnifiche sorti e progressive”] per ridefinirli ad ogni epoca successiva, riduce la storia ad una lotta in cui vince il più forte, di volta in volta dotato delle armi vincenti. Armi che possono essere fucili, cannoni e bombe, ma anche seduzioni, manipolazioni verbali, ideologie sostenute da forti gruppi di potere, anche economico.
Fare riferimento al ‘caso’ o alla ‘necessità’ è citare un pensiero che ha avuto molto successo, che – per farla breve, anzi brevissima – descrive la presenza umana sul pianeta Terra causata da una fortuita combinazione di elementi chimici che nel corso dei milioni di millenni avrebbe, per ‘caso’, costituito un essere vivente. La concatenazione poi di certi elementi chimici piuttosto che di altri avrebbe originato, per ‘necessità’, forme di vita che – a dar retta a Darwin – si sarebbero poi nuovamente per ‘caso’ mutate dall’ameba fino all’uomo e per ‘necessità’ selezionate o estinte.
Per un uomo fatto così, non può esistere un bene assoluto, né valido sempre. Se tutto cambia e tutto evolve, ciò che è bene oggi potrebbe non esserlo domani. Ciò che è bene per me, può non esserlo per un altro. L’unica possibilità resta quella di un fragile equilibrio tra opposti interessi.
Per indagare se esista qualcosa che sia davvero ‘bene’ per tutti, è necessario ridire e ridare significato ad un’altra parola sulla quale già da diversi anni si è letteralmente “scatenato l’inferno”. È la parola ‘persona’. Questa parola deriva dal greco, ha una traduzione anche in latino, e la sua etimologia dice molto di quello che significa: prosopon in greco (= ciò che sta sotto) e per-sona in latino (=risuonare tutt’attorno). Indicano, originariamente, la stessa cosa: la maschera che gli attori mettevano davanti al viso. Ne abbiamo riscontro nella parola italiana personaggio. Servivano a due scopi: primo, far capire immediatamente se si trattasse di una commedia o di una tragedia — qualcuno aveva già inventato gli emoticon —; l’espressione felice o triste di questi mascheroni serviva ad individuare il protagonista e il rimbombo della voce dietro alla maschera permetteva di farsi sentire fino a lontano.
Chi è, dunque, nella cultura greco-romana, ovvero occidentale e poi cristiana, la persona? Dobbiamo arrivare fino alla riflessione teologica trinitaria, per raggiungere una definizione piuttosto rigorosa formulata da Boezio: ‘sostanza individuale di natura razionale’. La persona è un soggetto univoco, definito dalla propria ragione, la quale non è un accessorio, ma parte sostanziale.
E se uno è stupido? La sua natura è che sia dotato di ragione: altra questione se non l’adopera.
Gli antichi non lo potevano sapere; oggi potremmo dire che nel DNA di ogni persona c’è la ragione, che sia espressa o inespressa. Se questo concetto fosse condiviso da tutti avremmo parecchi problemi in meno, ma purtroppo ci son dei signori che la pensano diversamente. Hugo Tristram Engelhardt ha tracciato una strada da cui non si torna più indietro. Diceva no, no, qui ce la stiamo litigando troppo, ognuno la pensa diversamente dall’altro, siamo una società di “stranieri morali” (concetto non nuovo: homo homini lupus); siamo talmente differenti che l’unica soluzione è stabilire un principio basilare, quello di non costringerci a fare nulla che non vogliamo. Ma se lo vogliamo, abbiamo il diritto di farlo, l’importante è mettersi d’accordo. Per cui, una volta trovato l’accordo, è ammesso l’aborto, l’eutanasia, eccetera, e anche l’infanticidio con un ragionamento che è un capolavoro di logica perversa: che cosa cambia al di qua o al di là del canale del parto? Naturalmente è vero che non cambia nulla, ma ormai è acquisito il concetto che non era persona prima… E i soggetti umani non responsivi, che non dimostrano di avere la ragione, per Engelhardt non sono persone. Esistono gli individui, ma le persone sono tali solo se una comunità di “esperti” decide che lo sono. Se questa sera io vi trasmettessi anche solo questo concetto vi avrei mostrato quale dinamica perversa oggi influenza molte delle nostre scelte e quasi tutte le scelte della politica.
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Ad maiorem Dei gloriam et socialem
Alleanza Cattolica in Ferrara