Fede e scienza: alle origini di un rapporto – prima lezione
Questi appunti sono la rielaborazione riassuntiva della prima delle quattro lezioni tenute dal dott. Luciano Benassi alla Scuola di Educazione Civile sul tema Storia della Scienza il 7 marzo, l’11 aprile, il 16 maggio e il 6 giugno 1996.
dott. Luciano Benassi
1. Introduzione
Da diversi anni stiamo assistendo ad un fenomeno culturale apparentemente contraddittorio: da un lato, la diffusione straordinaria del sapere scientifico, secondo una proposta di stampo positivista; dall’altro, la diffusione altrettanto straordinaria dei cosiddetti “nuovi movimenti religiosi”. L’apparente contraddizione è dovuta al un luogo comune fortemente radicato nell’opinione corrente secondo cui mondo della scienza e mondo della religione sono fra loro irriducibili e, per quanto riguarda il cristianesimo, anche nemici. Gli studi più seri sulle nuove religiosità hanno tuttavia contribuito in modo rilevante a svelare questo carattere profondamente ambiguo della modernità. In particolare hanno mostrato come modernità scientifico-positivista e credenze mitiche non siano affatto, come comunemente si crede, due mondi contrapposti, ma piuttosto due facce della stessa medaglia, fra le quali si dipana una fitta rete di rapporti storici, sociologici e psicologici. La “medaglia” è, chiaramente, l’esigenza profonda che alberga in ogni uomo di dare un senso alla propria esistenza, mentre le due facce sono i modi fondamentali di interrogare il reale per raggiungere lo scopo. La scienza ha come oggetto il creato naturale, la cui intelligibilità e razionalità sono il presupposto per la formulazione delle leggi scientifiche; la religione nasce dalla naturale propensione della ragione a ritenere che la totalità di ciò che esiste debba avere un Creatore, e che tale Creatore sia degno di fede e meriti un culto. Scienza e religione non hanno, dunque, lo stesso obiettivo, ma si fondano sul medesimo ordine che l’indagine razionale del mondo svela e offre ad ogni mente libera e onestamente disposta ad accogliere il vero: “È un ordine – diceva papa Pio XII l’8 febbraio 1948, in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze – che il vostro intelletto e la vostra mano rinvengono derivante immediatamente dalle intime tendenze insite nelle cose naturali; ordine che nessuna cosa può crearsi o darsi da sé, come non può darsi l’essere; ordine che dice Ragione Ordinatrice in uno Spirito, che ha creato l’universo, e da cui ‘dipende il cielo e tutta la natura’ (Par., XXVIII, 42); ordine che hanno ricevuto con l’essere quelle tendenze ed energie, e con cui le une e le altre collaborano a un mondo ben ordinato. Questa meravigliosa compagine delle leggi naturali, che lo spirito umano con instancabile osservazione e accurato studio ha scoperte e che voi sempre più andate investigando, aggiungendo vittorie a vittorie sulle occulte resistenze delle forze della natura, che è mai se non un’immagine, pur pallida e imperfetta, della grande idea e del gran disegno divino, che nella mente di Dio creatore è concepito quale legge di questo universo fin dai giorni della sua eternità?“.
Lo scopo di queste lezioni è quello di dimostrare che “la strada della scienza e le vie verso Dio” – per usare il titolo di un’ opera di dom Stanley L. Jaki, accademico pontificio e fra le massime autorità mondiali nel campo della storiografia scientifica – “costituiscono un unico percorso intellettuale: una scienza fattibile è nata e si è sviluppata solo all’interno di una matrice culturale permeata dalla ferma convinzione che la mente umana fosse capace di individuare nel regno delle cose e delle persone un segno del loro creatore. Tutti i grandi progressi creativi della scienza sono stati compiuti nel quadro di un’epistemologia strettamente imparentata con questa convinzione. Di più: ogni volta che questa epistemologia ha incontrato un’opposizione abbastanza forte e coerente l’attività scientifica è rimasta evidentemente priva di solide basi“. In altri termini, si può affermare che l’impresa scientifica, cioè la scienza come approccio razionale alla natura, è possibile soltanto all’interno di una concezione realistica dell’essere. Al di fuori di questa concezione, l’osservazione del mondo naturale ha prodotto esclusivamente modelli bizzarri e congetture inverosimili, mortificando la propria capacità di contribuire alla conoscenza.
Fra i tanti modi per affrontare e chiarire il rapporto fra scienza e fede, il punto di vista che ho appena descritto, si può riassumere nelle due domande cruciali:
– perché la scienza?
– perché la scienza solo in Occidente?
Esistono certamente altri accostamenti al tema, tutti meritevoli della massima attenzione e tutti, per così dire, di frontiera, cioè ai confini fra scienza, filosofia e teologia. Basti pensare
– al caso Galileo, con le sue implicazioni di carattere storico e teologico;
– al problema dell’origine e dello sviluppo della vita sulla terra e alla conseguente polemica evoluzionismo-creazionismo;
– alle teorie e alle scoperte della fisica del nostro secolo, come la meccanica quantistica e la cosmologia del big-bang;
– alle questioni sollevate dalle neuroscienze sul rapporto mente-corpo, con implicazioni sul problema della coscienza e dell’anima;
– ai miracoli, sulla loro definizione e sulla loro identificazione.
Tuttavia, le animate discussioni fra credenti e laici che accompagnano i dibattiti su questi e altri temi, finiscono quasi sempre in un rilancio di impossibili “argomenti decisivi” che, di volta in volta, dovrebbero mettere in difficoltà l’avversario, ma che la scienza non può fornire. In questo gioco di rimbalzi i credenti, se non sono abbastanza accorti, cioè se in loro non è ben chiara la distinzione fra fiducia di conoscere le cose, atto di fede e conoscenza scientifica hanno di solito la peggio, perché rischiano di essere attirati sullo stesso terreno dello scientismo dominante, che banalizza e schernisce ogni argomentazione che non sia “scientifica”, laddove invece il discorso dovrebbe essere esteso oltre i limiti del sapere scientifico.
Il mondo cattolico, per esempio, come in preda ad una forma di autocensura, è quasi scomparso di fronte al dilagare della pubblicistica scientifico-divulgativa che ha invaso le librerie negli ultimi trent’anni. E dove era presente, ha per lo più giocato di rimessa, come spiazzato dal susseguirsi delle scoperte scientifiche e, soprattutto, dal susseguirsi delle interpretazioni – sempre in senso laicista – di quelle scoperte. Ne è risultato un atteggiamento ambiguo, caratterizzato da slanci e aperture, da complessi di colpa per colpe mai commesse, da diffidenza e da reverenziali timori verso il mondo della scienza, sentito come un dato problematico per il sistema cattolico.
È quanto mai urgente, dunque, recuperare il rapporto originale fra scienza e fede, non solo affrontando singole questioni, come quelle che ho appena ricordato, ma delineando anche una visione di insieme nella quale la scienza appaia come una dilatazione naturale di una cultura fortemente radicata nella nozione di Dio creatore.
2. Le nascite abortite della scienza
Il già citato dom Stanley L. Jaki, ha fatto rilevare come la storiografia scientifica dominante ignori un dato essenziale e del tutto evidente quando si voglia analizzare la nascita e lo sviluppo della scienza: le grandi civiltà del passato non hanno conosciuto le scienze della natura, almeno come noi le intendiamo da quattro secoli a questa parte.
Il fatto che questo dato macroscopico sia taciuto, minimizzato o semplicemente spiegato con il ricorso ad argomentazioni parziali, è altamente indicativo della mentalità darwinista adottata dai maggiori storici della scienza negli anni 1950. Il darwinismo, che già all’inizio del secolo aveva costituito la base scientifica all’ideologia del Progresso, offriva ora agli studiosi una visione della scienza “come una lotta essenzialmente cieca di idee in competizione tra loro, ciascuna con la sua propria capacità di sopravvivenza“. Nasceva il cosiddetto paradigmismo, la dottrina storiografica di Thomas Kuhn, secondo cui i grandi progressi scientifici avvengono attraverso “rivoluzioni” che servono per formare il consenso intorno a un nuovo complesso di nozioni, il paradigma appunto, il cui destino è quello di essere soppiantato in modo traumatico da un nuovo paradigma. In questa visione delle cose, nella quale si sono formate almeno due generazioni di storici e di uomini di scienza, non c’è posto per nessuna preoccupazione di tipo causale: l’impresa scientifica “appare”, semplicemente, in analogia con la comparsa degli eventi biologici nella teoria evoluzionista e, se si adatta alle condizioni del momento, viene selezionata.
In questo schema artificioso, tuttavia, una certa coerenza esiste: come il darwinismo fatica a spiegare l’esistenza dei “rami secchi” ai lati del grande tronco evolutivo, anche il paradigmismo non spiega i “rami secchi” dell’evoluzione scientifica. In culture antiche come quella egiziana, indiana e cinese, per esempio, si osserva come impressionanti scoperte scientifiche e stupefacenti conquiste tecnologiche confluiscano invariabilmente verso un punto morto finale. Vediamo un po’ più da vicino questo fenomeno.
2.1. L’antico Egitto
Le testimonianze dell’abilità tecnologica degli antichi egiziani sono innumerevoli: dalle piramidi alle tecniche idrauliche per il controllo delle inondazioni. Basta visitare una piramide o un museo di arte egizia per rendersi conto del loro elevato tasso di abilità tecnologica.
Tuttavia la matematica, cioè la razionalizzazione di quantità, misure e calcoli, rimase un’arte pratica che non raggiunse mai lo stadio di generalizzazione necessario per spiegare classi di fenomeni.
Erodoto racconta di un viaggio per mare compiuto da marinai egiziani al tempo del regno di Nekao (610-595 a.C.), durato tre anni e iniziato lungo le coste orientali dell’Africa, in direzione sud. Al loro ritorno, dalla parte della Libia, i marinai raccontarono che per un po’ di tempo, mentre doppiavano quello che sarebbe stato chiamato il Capo di Buona Speranza, essi videro il sole brillare alla loro destra. Gli egiziani, molto prima che i Greci incominciassero a discutere della questione, avevano in mano la prova della sfericità della terra, ma la ignorarono.
Gli esempi potrebbero continuare, ma ci fermiamo qui. A questo punto i sostenitori del paradigma direbbero che gli antichi egiziani non riuscirono a sviluppare maggiormente la scienza perché non ne sentirono la necessità. La spiegazione pecca di presunzione. “Per quale ragione – si interroga dom Stanley L. Jaki – dovremmo supporre che […] fossero così insensibili al loro stesso benessere da accontentarsi semplicemente di un’arte medica che somministrava di gran lunga più veleno che cure? […] Per quale ragione le loro menti migliori avrebbero dovuto considerarsi soddisfatte dopo la conquista di successi quali il controllo delle inondazioni del Nilo? Dopo tutto, essi non erano lenti ad adottare dai paesi vicini armi sempre migliori – per esempio le bighe da guerra – ogni volta che se ne presentasse l’occasione“. Tuttavia non si spinsero mai oltre un ambito strettamente applicativo. Il loro atteggiamento nei confronti della natura appare caratterizzato da una enorme erudizione incapace, però, di produrre curiosità. Un egittologo ha affermato che “l’impressione lasciata in una mente moderna è quella di un popolo che cerca nel buio la chiave della verità, ed avendone trovata non una, ma molte, che si adattano al profilo della serratura, le tiene tutte per paura di potere scartare quella giusta“.
La causa della sterilità scientifica degli antichi egiziani va cercata, dunque, in una sorta di impasse che bloccava la loro mente di fronte al cosmo: da un lato le straordinarie nozioni acquisite dovevano suggerire loro l’esistenza di una natura ordinata, ma dall’altro essi manifestavano una sfiducia di fondo nella razionalità complessiva dell’universo. La loro concezione del cosmo era animista, come testimoniano le grottesche combinazioni di uomo e animale simboleggianti le divinità che presiedevano alle forze della natura. In un cosmo siffatto non poteva trovare posto l’indagine scientifica e le sincere aspirazioni ad un’esistenza migliore – testimoniate dalla loro poesia – rimasero lettera morta.