Introduzione al concetto di libertà
Trascrizione, non rivista dall’autrice, della lezione introduttiva tenuta dalla prof. Laura Boccenti Invernizzi il 7 ottobre 2005
Laura Boccenti Invernizzi
Introduzione al concetto di libertà
Grazie innanzitutto per l’invito a tenere la lezione inaugurale. Guardando il programma che dovrete svolgere, il tema che dovremo cercare di centrare questa sera è un inizio, un abbozzo di risposta ad una domanda. La domanda è: che cos’è la libertà?
Devo dire che sono rimasta affascinata dalla riflessione che ha svolto mons. Carlo Caffarra al recente Meeting di Rimini, che era proprio su questo tema, più precisamente libertà come liberazione. Pertanto ho pensato di non avere nessuna pretesa di originalità sui contenuti, essendo bello poter approfondire alcuni spunti presenti in questa relazione, che è di una ricchezza straordinaria. Il pregio in assoluto, e questo è il primo spunto che vi propongo, è l’orizzonte all’interno del quale egli colloca la riflessione sulla libertà, perché certamente è possibile parlare di libertà in astratto, della libertà come di una facoltà dell’uomo, quindi cercare di descriverne le caratteristiche. Occorre dire tuttavia che in realtà questo tipo di approccio è anche limitante, perché si prescinde dal contesto concreto in cui la libertà è inserita e si esplica. Mons. Caffarra considera la libertà nel suo momento sorgivo, nel suo presupposto, nel suo esercizio e, alla luce del suo fine ultimo, nel suo scopo. La domanda che si pone non è semplicemente che cos’è la libertà, ma anche qual è la radice della libertà, quali sono le insidie che la libertà dell’uomo incontra nel percorso concreto della vita di ciascuno di noi e nella storia dell’uomo – in fondo la storia non è altro che la geografia del genere umano – e alla fine perché c’è la libertà, perché l’uomo è costituito come libero. Si può dare una risposta? Allora si tratta non semplicemente di azzuffarsi intorno alla disputa se esista la libertà oppure se si debba pensare la nostra esistenza all’interno di un orizzonte puramente deterministico, per cui, qualunque scelta io faccia, sono vincolato ad essa a causa del contesto culturale in cui sono inserito o delle condizioni socio-economiche in cui mi trovo. Si tratta invece di qualche cosa di più profondo. Posto che ci sia la libertà, qual è il suo fondamento, quali sono le difficoltà che essa incontra? In qualche modo la libertà è data all’uomo non solo come possibilità, ma anche come compito, come qualche cosa che noi dobbiamo attuare; non è detto, tuttavia, che riusciamo ad attuare pienamente questa libertà che ci viene data. È importante interrogarsi su questo perché non c’è nulla che all’uomo sia dato a caso. Se l’uomo si trova come libero, ciò non solo è una ricchezza , una possibilità, una potenzialità; l’uomo è infatti anche interpellato dalla presenza di questa libertà, deve cioè dare una risposta alla quale non può sottrarsi. Se non avessimo la ragione potremmo sottrarci, ma avendo la ragione, che è il proprio dell’uomo, lo specifico dell’uomo, non possiamo non dare una risposta piena a questa richiesta, che non è una richiesta espressa con una parola, ma è espressa con una presenza, con il fatto che noi siamo qui.
La prima riflessione riguarda proprio l’origine della libertà. L’origine della libertà si colloca all’origine dell’uomo. Ogni uomo porta in sé una verità originaria. Questo significa che l’uomo, fin dall’inizio, si trova come qualcuno che è donato, che si trova come posto. Come qualcuno che non si è costituito nell’esistenza, ma l’esistenza l’ha trovata. Questo trovarsi dell’uomo nella sua esistenza con le caratteristiche che lo costituiscono è un fatto densissimo di significato, perché in questo trovarsi dell’uomo c’è anche la libertà, ma è una libertà che è accompagnata anche da una natura. Infatti io non sono libera di volare, non sono libera di conoscere intuitivamente, ma devo conoscere discorsivamente, prima una cosa, poi l’altra. In altri termini, posso esercitare la mia capacità di scelta, ma in un orizzonte dato, trovato. Anche la mia libertà l’ho trovata, insieme a me stessa, nel momento in cui mi sono trovata nell’esistenza. Significa che l’uomo dipende da un fondamento. L’uomo non dipenderebbe da nessun fondamento fuori di sé, se si fosse autoposto. Se mi sono autoposto, sono la causa del mio stesso essere, non dipendo pertanto da nessun fondamento. Ma il fatto che l’uomo si trovi invece come posto, significa che dipende da qualche cosa. Qualcuno potrebbe dire che la sua vita, la sua esistenza, dipende dalla volontà dei suoi genitori, che hanno avuto un figlio e gli hanno trasmesso, come era comprensibile che succedesse, la natura umana. Eppure – l’acuta osservazione è di Mons. Caffarra – “quando un uomo e una donna decidono di dare origine ad una vita umana essi possono solo desiderare di avere un bambino. Non hanno alcuna possibilità di scegliere questo bambino piuttosto che quello, quale bambino, quale persona. I miei genitori non volevano me, ma un bambino, un figlio. Che il figlio voluto fossi io, questo non era in loro potere”. Vuol dire che al massimo ai miei genitori posso riconoscere la trasmissione della vita e della natura, ma non sono i miei genitori l’origine del mio essere personale, di ciò che mi permette di dire Io, di ciò che in questo momento mi fa cosciente della presenza di voi che ascoltate, che mi dà consapevolezza, che mi consente di operare delle scelte di fronte alle situazioni della vita. Questo Io, questa dimensione personale che i miei genitori non conoscevano — perché volevano un bambino, non me — da qualche cosa deve derivare. Inoltre, e non secondariamente, i miei genitori non avevano in sé la causa del proprio esistere. Che cosa significa non avere in sé la causa per proprio esistere? Lo diciamo al contrario: se io avessi in me stessa la causa del mio esistere, se in questo momento morissi, potrei decidere di tornare viva, perché sono la causa del mio essere, ed anzi del mio esserci. Ogni realtà che non è in grado di allungare di un secondo la propria esistenza non può dire di avere in sé la causa della propria esistenza, del proprio vivere. Questo è il senso della riflessione sull’origine: se io penso senza operare falsificazioni sulla realtà, non posso non constatare che l’uomo trova la libertà come qualcosa che è posta insieme al suo essere. Nel Vangelo si dicono poche cose di Maria , ma per due volte si dice: “serbava tutte queste cose nel suo cuore”, cioè faceva memoria, e si dice ciò come una cosa particolare, con una sottolineatura straordinaria, perché effettivamente fare memoria significa contenere dentro la propria coscienza il senso della realtà senza deformare in alcun modo questo significato, accogliendolo con docilità, accogliendolo con verità, facendo cioè esattamente memoria del senso. Questo implica una grande rettitudine di coscienza; molto spesso noi falsifichiamo la nostra conoscenza della realtà e anche la nostra riflessione rimane depotenziata da questa falsificazione. Per fare un esempio, se una persona ci è antipatica e, nell’incrociarla per la strada, non ci saluta, subito pensiamo che sia una prova dell’antipatia di questa persona. È un esempio banale, ma fa parte dell’esperienza di ogni uomo. Il sì e il no del volere alterano, deformano la nostra capacità di riflettere sul senso delle cose. E per questo è straordinario e degno di menzione che Maria facesse memoria di tutte le cose, perché le serbava con grande rettitudine nella loro verità all’interno del suo cuore. Anche noi allora dobbiamo cercare di fare memoria di questo senso originario. L’uomo si trova come qualcuno che è donato, non come qualcuno che si costituisce nell’essere, e si trova anche come libero. Questo vuol dire che il riconoscimento del fatto di essere qualcuno che si trova come creato, come qualcuno che non è causa di sé, è affidato a lui stesso. Questa è la libertà. E se il riconoscimento della libertà è nelle mie mani, è affidato a me, io posso anche dire che non è vero, posso dire anche che non ho alcun fondamento, che non devo fare riferimento a nulla e a nessuno. Molti dicono di non potere in qualche modo conoscere il fatto di dipendere da un fondamento. Questo punto è veramente importante, a mio modo di vedere, perché non si tratta di avere fede nel fatto che ci sia il Creatore; io ho fede che Cristo sia il Figlio di Dio, ho fede, aderisco alle verità rivelate, ma sul fatto che esista qualcuno – e non qualcosa – che è a fondamento del mio essere, non ho bisogno della fede: per questo è sufficiente la ragione. San Paolo nel primo capitolo della Lettera ai Romani, al versetto 21, parla di coloro che, a causa della turpitudine delle loro azioni, vengono abbandonati a pensieri insensati e quindi negano l’esistenza di questo fondamento, che poi è Dio, perché l’uomo chiama Dio l’origine della vita. I primi filosofi si interrogavano da che cosa provenisse tutto quanto il cosmo, perché vedevano e comprendevano che le cose non hanno in sé la causa del proprio esistere e quindi cercavano questo fondamento della vita, che poi è l’Essere. E ciò che si chiama essere è Dio, non è una cosa diversa, è lo stesso Dio che poi si rivela nella storia e a cui, in questo caso, io devo dare il mio assenso di fede. Quando la Scrittura afferma che Dio è in ogni cosa e noi siamo in Lui, respiriamo in Lui, viviamo in Lui, non sta dicendo una cosa che ripugna alla ragione, ma sta dicendo una cosa che la ragione esige, perché l’essere è in tutta quanta la realtà; così Dio è presente in ogni cosa con la sua essenza, con la sua stessa sostanza, anche se l’essere con cui sostiene la realtà è un essere che viene partecipato, non comunicato, perché noi non abbiamo la stessa natura di Dio; l’errore dell’immanentismo consiste nel sostenere che una penna è Dio, che una mucca è Dio, piuttosto che tutto quanto il creato è Dio. Infatti tutto è certamente pieno di Dio, ma nessuna realtà finita è Dio. Dio è il fondamento, quel fondamento che la nostra ragione non può non riconoscere, perché lo trova per il semplice fatto che l’uomo si trova come posto. E si trova posto come soggetto, quel soggetto che non è stato scelto da mamma e papà, che volevano solo un bambino; allora, se mi trovo posto come soggetto — e trovarsi posto come soggetto significa che mi trovo come un io, quindi consapevole, capace di coscienza, capace di volere — mi trovo anche, proprio perché sono soggetto, in rapporto con il mondo fuori di me, con gli altri uomini, e con me stesso, con la mia natura, perché ciascuno di noi è una unità personale, ma all’interno di ciascuno di noi ci sono molteplici facoltà: per esempio la ragione, la volontà, i sentimenti, la corporeità. Talvolta faccio esperienza del fatto che le mie facoltà se ne vanno in direzioni diverse, quando ad esempio la mia ragione vede il vero, la mia volontà lo vorrebbe anche, ma magari i miei desideri mi portano da un’altra parte; allora faccio esperienza della disintegrazione delle mie facoltà, della lotta che fa parte costitutiva della vita di ogni uomo. Il fatto di essere soggetti ci dice una cosa importantissima, ci dice che questo fondamento non è una realtà impersonale, non è un fatto cieco, non è l’universo, l’energia, perché se questo fondamento che mi ha costituito mi ha scelto come soggetto, e se questa soggettività non mi è stata data dai miei genitori, è necessario che il fondamento abbia in qualche modo per analogia le caratteristiche dell’essere soggetto personale, perché mi ha chiamato a pormi in relazione con lui come soggettività. Se l’uomo si trova costituito come soggetto dal suo fondamento, alla sua origine deve esserci un atto di intelligenza e di scelta, quindi una soggettività — non dico un uomo, perché quando noi pensiamo alla soggettività e alla dimensione personale pensiamo all’umanità, ma l’essere persona significa essere consapevole, essere capace di conoscere, essere capace di amare. Noi diciamo una cosa accanto all’altra, ma è chiaro che se predichiamo ovvero se diciamo queste cose dell’essere, lì esse vivranno con un tale grado di perfezione che le modalità saranno inevitabilmente diverse. Questo significa però che all’origine del mio essere come uomo c’è una persona, e il fatto che io possa dire che l’uomo si trova posto da un fondamento che è soggetto personale significa dire che la nostra libertà è posta e garantita dalla libertà del nostro fondamento; è infatti un soggetto libero che mi pone, e mi pone come soggetto libero, quindi la mia libertà, la mia possibilità di scegliere, di agire, la mia possibilità di diventare i valori che scelgo di incorporare in me, la persona che decido di diventare, questo dipende dal fatto che sono legato, sono in dipendenza da un fondamento libero. I falsi maestri ci insegnano che la libertà vera consiste nel liberarsi da ogni dipendenza dal fondamento; invece è la nostra dipendenza dal fondamento, il fatto che l’uomo dipenda da quello che io continuo a chiamare il suo fondamento, ma che è un soggetto personale, a costituire garanzia della nostra libertà, perché è questo fondamento che ci ha costituito come uomini, soggetti e liberi, non come cose, che possono essere manipolate a proprio piacere a seconda delle ideologie che in un momento o in un altro della storia si possono affermare. È proprio la dipendenza da questo principio che ci garantisce che, siccome ci vuole liberi, noi lo saremo. La nostra libertà è dipendere da Dio. Questa è dunque la prima riflessione circa l’origine della libertà e il suo significato.
Il secondo punto lo abbiamo anticipato all’inizio: come si svolge questa libertà nella storia, nella concretezza della storia? come si svolge nella mia storia, nella mia biografia? come si esprime, come entra nella costituzione della soggettività? L’uomo infatti nasce bimbo e nel momento in cui muore ha compiuto la parabola dell’esistenza, ma la crescita dell’uomo non è solo una realtà fisica, la crescita dell’uomo è espressione e linguaggio della crescita di tutta quanta la persona. Sentivo fare questo bellissimo paragone da Giovanni Cantoni, che paragonava appunto la vita dell’uomo ad una seconda gestazione: nella prima gestazione, quella che tradizionalmente chiamiamo gestazione, il bimbo, prima di nascere, dal concepimento fino alla nascita, non può nulla, dipende totalmente dalla propria madre; però,dopo la nascita, inizia a relazionarsi con tutta la realtà esterna e piano piano, gradualmente, ciò che diventa, ciò con cui si alimenta, ciò che decide di conoscere, le relazioni e le modalità di relazioni che decide di instaurare le sceglie lui, quindi partecipa alla sua crescita in questo periodo che è la seconda gestazione dell’uomo, quello che precede la morte, che è dunque metafora del parto, una seconda nascita. Mentre nella prima nascita l’uomo non ha avuto merito né demerito, in questa seconda nascita sì – questo è un punto importante – perché noi possiamo, nel tempo, con cose finite, fare cose, produrre azioni, che avranno una rilevanza eterna e infinita. Questo lo dico perché molte volte noi siamo preda dell’illusione che la quotidianità sia banale, che la quotidianità sia difficile da sopportare, che sia in fondo noiosa e tutto sommato di poco valore, e questo è veramente un’illusione, perché l’atto finito, l’azione, il gesto, per quanto possa essere ripetitivo, è sempre il luogo dove tutta la mia persona si gioca, ed è in quel gesto che io, a seconda dell’intenzione, della modalità e della oggettività dell’azione che compio, introduco il valore che scelgo, e mentre lo introduco nell’azione, lo introduco anche in me: se scelgo di rubare divento ladro, se scelgo di mentire divento bugiardo, se scelgo di dire la verità divento leale. Quindi in qualche modo io tratteggio, costruisco, scolpisco, produco dentro di me, mediante la scelta, il valore per cui mi sono deciso. In questa seconda riflessione noi dobbiamo considerare che nell’esercizio della libertà troviamo due aspetti importantissimi: l’autopossesso e l’autodeterminazione. Autopossesso significa che io possiedo me stesso. Prima accennavamo al fatto che molte volte vedo che cosa è vero, ma provo anche l’impulso di fare una cosa che è contraria alla verità che ho visto, perché la desidero. Se so, ad esempio, che a causa di una determinata malattia, mi fa male mangiare cioccolato, ma lo desidero molto e pertanto lo mangio ugualmente, io provo ovvero faccio esperienza della disgregazione. Autopossesso significa che fin dall’inizio io trovo la mia libertà come quella realtà che mi mette nelle condizioni di possedere me stesso, cioè di possedere la mia natura. Ad esempio se ho fame, non sono determinato dalla mia fame; sono io che decido se mangiare o non mangiare ciò che mi viene proposto; se ho sete, sto camminando lungo una strada e mi trovo accanto un corso d’acqua, prima di bere, tra il mio impulso e la decisione, interviene la ragione, che mi dice di verificare che l’acqua sia potabile, prima di berla. Questo è l’esercizio dell’autopossesso; significa che l’uomo possiede la propria natura o, meglio, che l’uomo è in grado di possedere, se vuole, la propria natura. La libertà è ciò mediante cui può possedere la propria natura. È l’autodeterminazione, l’altro aspetto della libertà; sono io infatti che decido che cosa divento, sono io che decido se voglio diventare ladro, bugiardo o se voglio invece diventare un’altra cosa. Non decido alla luce delle conseguenze. Mons. Caffarra ricorda l’episodio della morte di Socrate in prigione: Socrate viene condannato a morte perché viene accusato di aver introdotto delle nuove divinità e di aver corrotto i giovani. Detto per inciso, i suoi accusatori avevano sostanzialmente un’ invidia terribile, dal momento che Socrate con il suo metodo maieutico attraeva questi ragazzi in quanto dava risposte alla ricerca di senso della loro vita. Ebbene gli amici riescono a trovare la maniera per liberarlo. Critone stesso va a raccontargli la strategia di fuga, ma Socrate rifiuta, perché i giudici della città hanno deliberato così e, anche se la sentenza è ingiusta, sarebbe un’ingiustizia ancora maggiore sottrarsi a chi legittimamente ha emanato questa sentenza; allora Critone gli dice che i suoi amici e i suoi cari soffriranno moltissimo per questa decisione, ma Socrate risponde che non decide alla luce delle conseguenze, ma alla luce di ciò che è bene e ciò che è male: nel valutare ciò che è bene e ciò che è male si possono certamente considerare anche le conseguenze, ma non sono le conseguenze a determinare la scelta. È questo che è fondamentale quando si riflette sul senso e sul significato dell’autodeterminazione. Dire che l’uomo è capace di autodeterminarsi significa affermare che non solo io decido, ma anche che io decido di me stesso; mentre scelgo, scelgo anche quale valore incorporo in me. A questo proposito, su come cioè si esprime la nostra libertà nella nostra esistenza, occorre fare un’ulteriore riflessione. Io considero, devo considerare il fatto, che l’atto libero — e questo è all’origine di molti fraintendimenti — è veramente un inizio assoluto; sono infatti io che agisco. Inizio assoluto vuol dire che esso non è determinato da nessuna causa fuori di me. Questo è il motivo per cui molti, per il fatto che la libertà si esprime attraverso la capacità che ogni uomo ha di essere causa dei propri atti, hanno equivocato, ritenendo che la libertà fondasse anche la libertà dei proprio atti. Quando io dico di essere causa del mio atto – e unica causa necessaria – intendo dire che per compiere questa azione in ultima istanza possono essere esercitate su di me moltissime pressioni, e io posso anche cedere alle pressioni, ma in fondo, sempre, dicendo sì o no, sono io a decidere: da me parte, da me si origina quella decisione, quella scelta. I martiri, ad esempio, venivano ricattati: o fai così o perdi la vita. Essi certamente sentivano la pressione di questo fatto, erano uomini come noi e tanto più erano santi, tanto più la loro umanità era presente, ricca, sensibile; quindi non è che loro non sentissero la paura, il desiderio di vivere, l’apprensione, e tuttavia nel momento della scelta, quando sembrava che il ricatto dovesse avere effetto, perché quello che veniva messo in gioco era la stessa vita, dicono no, c’è qualcosa che vale di più della mia stessa esistenza fisica, materiale, cioè la mia vita eterna. Questo vuol dire che in ultima istanza io sono veramente l’autore delle mie scelte, non c’è nulla che mi può determinare dall’esterno se io non voglio: posso anche morire. Da un certo punto di vista noi dobbiamo ringraziare doppiamente i martiri, perché non sono testimoni soltanto della fede in generale, ma perché testimoniano di questa capacità di infinito che c’è nel cuore dell’uomo, nella radice del cuore dell’uomo; magari io personalmente non ne sono o non ne sarò capace, però so che l’uomo ha una dignità straordinaria perché è persino capace di fare così. Quando dico che l’atto libero è un inizio assoluto non voglio dire che posso fare quello che voglio partendo dal presupposto che la libertà è un assoluto e che può quindi essere esercitata senza regole; intendo invece dire che l’uomo è l’unica causa necessaria alla costituzione della decisione e non c’è nulla all’esterno che lo possa determinare. Questo punto è importantissimo, perché noi viviamo all’interno di una cultura che è, nella sua componente dominante, governata dall’idea che la libertà sia in se stessa un assoluto, cioè che essere liberi significhi poter fare quello che si vuole. Questo è assolutamente falso, perché la libertà non si trova come un primum che fonda i valori; non è l’uomo che dice qual è il senso, qual è la verità delle cose che incontra, delle cose che lo circondano, ma questa verità è trovata; che questa cosa su cui mi appoggio sia un tavolo, cioè un oggetto, ha anche un risvolto etico; ad esempio quando io sono entrata in questa stanza mi sono tranquillamente seduta e ho messo i fogli dei miei appunti sul tavolo, mentre non mi sarei mai permessa di farlo su una persona: gli oggetti li tratto diversamente dai soggetti. Soggetti e oggetti mi chiedono di comportarmi in modo diverso. Dunque la libertà non pone la verità delle cose, ma la trova già posta; non si può allora dire che la libertà è in sé stessa un assoluto, ma che è l’uomo che la governa e nessuna pressione esterna può prevaricare in modo completo, dal momento che c’è sempre la possibilità per l’uomo, se vuole, se la coltiva, se la fa crescere, di dire sì o no. Per questo motivo si dice che la libertà dell’uomo si esprime come autopossesso e come autodeterminazione. Che cosa significa che la libertà si esercita nei confronti di una realtà che non è l’uomo a porre? Significa che la libertà dell’uomo deve fare i conti con la verità delle cose. Questa non è una cosa che diciamo per preconcetto. Nel discorrere di queste cose non abbiamo utilizzato delle nozioni di riferimento, come il pensiero di Hegel, di Kant, di Heidegger, di Manzoni, ma piuttosto abbiamo cercato di fare riferimento all’esperienza che ciascuno di noi può fare, in se stesso e nella propria esistenza. Quando io dico che la libertà non pone la verità delle cose voglio dire che io, soggetto libero, mi trovo di fronte alla realtà che è già posta e che ha una natura data; certo che sono libera, sono libera di costruire quell’ opera d’arte che è la mia esistenza, ma all’interno di un orizzonte che ha una regola, e la regola è riconoscere la verità delle cose. Dicevamo prima che questo tavolo è un oggetto, ma, nel caso dell’uomo, in che cosa consiste il suo bene? è conoscibile il bene dell’uomo? E questo ci porta ad una ulteriore considerazione: nella cultura contemporanea si è affermata l’idea che la libertà sia un assoluto, cioè che essere liberi significhi che ciascuno possa dire: io scelgo di orientare così la mia vita. Essere liberi significherebbe così svincolarsi dalla necessità di leggere la realtà, di vedere che cosa c’è scritto nella realtà, di ricercare in che cosa consiste la verità delle cose. Invece il proprio progetto va costruito liberamente sì, ma declinandolo con la verità delle cose. È vero che l’uomo è libero e creativo, e la vita di ciascuno di noi è un capolavoro unico irripetibile, però questo capolavoro può essere costruito coniugandosi con la natura, con la ragione e la verità. Ho la volontà e la esercito – nel modo più conforme anche al mio essere personale, perché ciascuno di noi è diverso – oppure la posso esercitare contro questa natura, in alternativa a questa natura. La nostra cultura ci ha indotti a ritenere che essere liberi significhi fare quello che si vuole, a pensare quindi la libertà come assoluto, come realtà radicale e assoluta. Ora, normalmente, proprio coloro che sostengono che la liberà è un assoluto affermano anche – è inevitabile che ci sia questo passaggio – che l’uomo per esercitare la propria libertà non debba fare riferimento alla dipendenza con il suo fondamento, perché dicono che questo fondamento non è conoscibile. Dunque, per essere libero, l’uomo dovrebbe essere sciolto dal suo fondamento; è a causa di questo fatto che si origina nel discorso anche pubblico, politico e sociale, la separazione totale fra la sfera della cultura e dell’azione politica – che fa parte dell’agire normale, naturale dell’uomo- e la sfera religiosa. Quante volte ci viene ricordata la frase del vangelo “rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, per dire che si tratta di due realtà totalmente separate e che se anche una persona è credente non deve agire nel mondo facendo ricadere sugli altri le conseguenze della propria fede: credi pure che esiste Dio, credi pure ai dieci Comandamenti, pensa pure che eliminare la vita di un bimbo non ancora venuto alla luce sia omicidio, ma non puoi costringere le altre persone ad adeguarsi alle tue convinzioni di fede. Questo è un argomento che moltissime volte abbiamo sentito e che ha il suo punto di partenza nell’affermazione, non esplicitata ma sottintesa, che l’uomo non può conoscere di essere dipendente dal fondamento. Ed è esattamente questo punto che mi pare opportuno contestare, perché può essere dimostrato: l’uomo può conoscere di dipendere dal fondamento e questo significa che rendere culto fa parte dell’uomo, della natura dell’uomo. Con la parola culto non intendo solo l’azione liturgica in senso stretto, né la preghiera privata; con la parola culto dobbiamo intendere anche il riconoscimento della dipendenza da questo essere: questo è il culto che va reso, senza peraltro dimenticare il resto, altrimenti che senso avrebbe “amare Dio con tutta la mente”? Questa è una parte che si dimenticano sempre tutti quanti: non solo con tutto il cuore, ma anche con tutta la mente, perché se ci ha fatti razionali significa che questa ragione la dobbiamo utilizzare secondo le modalità della sua natura, diversamente non ne avremmo avuto bisogno affatto. Rivendicare l’autosufficienza assoluta, che è propria di questa prospettiva della modernità, significa rifiutare di riconoscere questa relazione di dipendenza, e allora — attenti perché questo è il punto — il problema non riguarda la Rivelazione, il problema non riguarda l’Unità e la Trinità di Dio, il problema riguarda la conoscenza della verità sull’uomo, è un problema di conoscenza di verità sull’uomo, è un problema culturale, di ragione, è una verità sull’uomo su cui la ragione ha il diritto e il dovere di esprimersi. Se si deve rendere a Dio ciò che è di Dio, Dio come fondamento, la società e la politica devono riconoscere la sua esistenza, e questo di ragione, anche se questo fatto viene negato dagli intellettuali più gettonati nel nostro paese (i vari Vattimo, Severino e compagnia bella): escludono a priori l’ipotesi della metafisica, cioè l’ipotesi che si possa riflettere su questo fondamento, che possa essere accessibile e conoscibile, e lo fanno semplicemente con questo argomento: da Cartesio in poi non lo fa più nessuno, quindi non si fa. Infatti Giovanni Paolo II non a caso in tutto il suo Magistero ricordava la necessità di ritornare a prima di Cartesio, di tornare a quando, nella filosofia, la premessa era questa: c’è una realtà, questa realtà non dipende dal mio pensiero, la verità è l’adeguazione del pensiero alla realtà, il pensiero dell’uomo è capace d riconoscere di essere finito e di essersi trovato come posto; queste sono verità di ragione, e la cultura deve riconquistare questo punto, che significa riconquistare l’idea che c’è un principio che è all’origine del mondo, cioè Dio creatore (non si dice Dio redentore, ma almeno Dio creatore). Questo significa avere la possibilità di chiedere a ogni uomo di riconoscere con la ragione il diritto naturale, che la vita è un valore; perché è un valore? Perché io posso conoscere la realtà, che cos’è l’uomo, il valore dell’uomo, la dignità dell’uomo, con la mia ragione. Non è questione di opinioni, la verità non è qualcosa di prodotto dalla ragione, ma è qualcosa di riconosciuto, di ricavato; però questo è possibile se c’è una realtà che precede il pensiero. Alla radice della riduzione di Dio a opinione privata c’è la convinzione che Dio sia un’idea, un contenuto della coscienza, ma Dio non è un’ idea né un contenuto della coscienza; non lo trovo perché io penso che ci sia, mentre un altro dice che secondo lui non c’è, ma lo trovo come fondamento. Prima che io incominci a pensare, Lui come essere c’è. Poi con il mio pensiero posso dire sì o no, ma il prima non dipende dalla mia opzione: l’esistenza di Dio viene prima, non è opinabile. Questa è la strada che ha imboccato la cultura moderna, queste le insidie con cui la nostra libertà deve fare i conti. Voi ben sapete che recentemente c’è stata una levata di scudi nei confronti dei Vescovi che sono intervenuti per ribadire la posizione della Chiesa su importanti punti attinenti alla sfera della morale sociale. Essi sono stati accusati di interferenza nella vita politica. Secondo gli accusatori il clero non può parlare di morale pubblica, perché bisogna tener separato l’ambito religioso da quello politico. Ebbene, Benedetto XIV nell’omelia di domenica scorsa ha potuto dire: “la tolleranza che ammette per così dire Dio come opinione privata, ma gli rifiuta il dominio pubblico, la realtà del mondo e della nostra vita, non è tolleranza, ma è ipocrisia”. Perché dice questo? Perché ci troviamo di fronte ad una ideologia laicista, l’ideologia che si fonda sull’idea che la ragione dell’uomo non abbia nessun fondamento. Allora ogni discorso su Dio è una questione di fede, quindi confessionale. È un discorso islamico, o cattolico, o protestante, ma comunque confessionale, non è un discorso che invece riguarda tutti gli uomini. Ebbene, il primo passo per difendere la libertà è rivendicare che il discorso su Dio può essere condotto, deve essere condotto, anche con la ragione: io posso andare da un ateo a chiedergli quali sono le ragioni dell’ateismo ed io le ho studiate, le ho cercate; ebbene, l’ateismo non ha ragioni, ma si basa su una pura negazione; nessun filosofo può dare un argomento che dimostri che Dio non esiste; mentre si può dimostrare che Dio esiste, l’ateismo è senza ragioni; ci sono affermazioni nichilistiche, agnostiche, che sono anche estremamente contraddittorie. Se infatti dico che non si può conoscere la verità, e questa affermazione la faccio con la pretesa che sia vera, ciò equivale a dire: puoi conoscere soltanto questo di verità, che non si può conoscere nessuna verità. Questo è l’equivoco in cui la prospettiva laicista, che dipende dalla negazione del fondamento, ci ha costretti.
L’ultimo punto è lo scopo ultimo della libertà. Perché c’è la libertà, la libertà che ci costituisce come soggetti, capaci di relazione con altri soggetti? Forse per scegliere il modello di una macchina nuova? Anche, ma non è certamente questa la ragione dell’esistenza della libertà. Poniamoci quest’altra questione: che cosa desidera il cuore dell’uomo? Il cuore dell’uomo desidera la felicità, niente di meno, e non una felicità qualsiasi, non semplicemente la serenità, e neanche il piacere; io sono facile profeta se dico che ognuno di noi qui presenti desidera la felicità, perché questo è il desiderio insito nel cuore dell’uomo, ed è un desiderio che quando viene offuscato deve essere rispolverato e rinverdito, perché è il nostro tesoro più grande, perché è quello che ci fa agire per conseguire tale felicità. Che cosa è profondamente beatificante per l’uomo? la felicità che io desidero non consiste semplicemente nel fatto di essere contento, la felicità che io desidero è la beatitudine. L’unica cosa che è profondamente beatificante per l’uomo è il riconoscimento che trova attraverso l’amore. Ciascuno di noi ha fatto l’esperienza, immagino, dell’innamoramento. Il senso comune coglie spesso delle verità profondissime. Si dice allora ad una persona: ti sei innamorata, sei bella, luminosa, si vede che sei felice. Questa felicità in qualche modo si manifesta anche all’esterno. Perché nel momento dell’innamoramento, nella realtà del rapporto d’amore tra due persone l’uomo fa esperienza di uno stato simile alla beatitudine? Perché è come se l’altro con la sua presenza e con il suo riconoscimento d’amore – e amore significa che mi sta donando la sua libertà, che mi sta dicendo: tu sei bene per me- dicesse: è bello che tu ci sia, è bene che tu ci sia, cioè la stessa cosa che ha detto Dio quando ha creato il mondo: vide che tutte le cose erano buone, che erano belle. Così nel rapporto d’amore c’è questo riconoscimento profondo dell’altro come presenza beatificante per me. Se alla nostra origine la libertà ci viene data come aspetto che consente di stabilire a me soggetto di dire di sì, di riconoscere il rapporto con il mio fondamento che è un soggetto, allora lo scopo ultimo della libertà è poterlo amare. Tuttavia questo amore non deve essere pensato come una cosa astratta, ma come una cosa assai concreta. Pensate che Dio ha creato la sessualità, ha creato l’amore e l’innamoramento, come per dire qual è la modalità, il modo con cui lui ama ogni singolo uomo: con un amore di tipo unitivo. È il linguaggio con cui viene rivelato il senso, il significato dell’amore all’interno della Santissima Trinità, che pure è spirituale, non è materiale, non si esprime mediante la materia, mediante la corporeità, ma il modo che Dio ha trovato per dire attraverso la materia, attraverso la corporeità qual è l’amore che vige all’interno della Sua natura nelle tre Persone e l’amore con cui ci ama è quello, e il segno è quello dell’innamoramento, che è un’analogia, non è la pienezza. Questo è in realtà ciò che io voglio, ciò che il cuore dell’uomo vuole. Qual è dunque il senso ultimo della libertà? è avere la possibilità, in una maniera impensabile per noi uomini che siamo finiti, nati in un momento e in un luogo, che finiremo in un momento e in un luogo, che compiamo azioni finite, di stabilire un rapporto con un soggetto infinito che mi rende possibile una beatitudine infinita. La libertà ci presenta dunque questo paradosso: può essere usata per attivare tutte le possibilità che sono inscritte nella persona, oppure può essere usata per distruggerle. È ad ogni uomo che spetta allora fare la giusta scelta.